Cerchiamo conforto nel cibo, ormai lo sappiamo, e quest’anno di panificazione compulsiva ce l’ha confermato. Ma perché? E soprattutto, da che cosa deriva la nostra scelta di un cibo al posto di un altro?
L’Oxford Dictionary descrive il comfort food come “un alimento che fornisce consolazione o una sensazione di benessere, generalmente con un alto contenuto di zuccheri o carboidrati e associato alla cucina consumata durante l’infanzia o a casa”.
Ma il concetto di comfort food non è universale e dipende molto da dove siamo cresciuti e quali piatti in quel contesto sono considerati confortanti. Ma una linea comune c’è: grassi, carboidrati, zuccheri. Gli alimenti che scegliamo – universalmente – per stare meglio tendono ad essere ricchi di questi nutrienti.
Ma non solo, pare che c’entri anche l’evoluzione: Lukas Van Oudenhove è uno psichiatra e professore associato presso l’Università di Louvain in Belgio e studia l’interazione tra il nostro intestino e il nostro cervello. Secondo lui, l’evoluzione gioca un ruolo nella nostra ossessione per i cibi grassi. In passato, infatti, questo tipo di alimenti scarseggiavano e l’evoluzione ci ha spinti a mangiarli quando li abbiamo a disposizione.
L’esperimento fatto dal professione è inquietante ma dimostra la tesi: alimentando due gruppi di persone attraverso un tubo nello stomaco, quindi senza che nessuno sapesse che cosa stava ‘mangiando’, chi ha ricevuto grasso ha reagito alla tristezza mentre chi ha ricevuto acqua è rimasto al suo livello di tristezza.
«Anche se abbiamo usato una dose bassa, il grasso ha stimolato cellule specializzate nello stomaco e nell’intestino tenue. Queste cellule sono fatte per produrre diversi tipi di ormoni che regoleranno se siamo affamati o sazi. Ciò accade principalmente in una piccola regione del cervello chiamata ipotalamo», spiega Van Oudenhove.
Ma anche il dolce ci condiziona. Ci siamo evoluti in modo da preferire il dolce perché è un chiaro segnale di un valore energetico: ma rispondiamo nello stesso modo anche alla dolcezza artificiale che non contiene nutrienti. Un corto-circuito che può avere effetti sgradevoli sul nostro metabolismo.
Il nostro legame con certi cibi è legato alle esperienze positive che abbiamo avuto, se ci ricordano anche inconsciamente un momento nel quale siamo stati accuditi, ci siamo sentiti protetti, le nostre preferenze saranno ancora più forti. Ma non necessariamente lo notiamo, perché la connessione è spesso subconscia. È il nostro cervello primitivo che fa questo per noi.
È una questione di codifiche: mentre mangiavo questo piatto stavo bene, le due informazioni sono separate ma il nostro cervello le ha associate: quando mangiamo non solo la memoria è attivata ma anche le emozioni che ci ha scatenato allora quel boccone.
Ma è automatico che ingerire questi cibi ci faccia stare meglio? Non sempre, soprattutto se abbiamo associato (da grandi!) il senso di colpa ad alcuni elementi. Rabbia e rimorso sono due sensazioni che alcuni provano dopo aver divorato cibi consolatori, spesso senza nemmeno avere reale appetito. Fare troppo affidamento su questi cibi ci può portare a pesanti disturbi dell’umore.
Pare che le fibre siano una possibile soluzione a questo problema: la fibra fornisce nutrimento a milioni di batteri situati nell’intestino crasso, che a loro volta producono metaboliti che possono non solo ridurre l’infiammazione ma anche interagire con il cervello in vari modi. Le fibre che possono innescare una tale reazione si trovano nei cereali integrali come grano e avena, nei legumi come ceci, lenticchie e fagioli e negli ortaggi a radice.
Se proprio dobbiamo confortarci con il cibo, almeno facciamolo con un approccio scientifico.
Ma senza nemmeno essere ossessionati da questi aspetti: il piacere ha un fine. Ci motiva a ingerire una data sostanza essenziale per il corpo. Eliminare uno di questi nutrienti dalla nostra dieta comporterebbe problemi di malnutrizione e perfino la morte.
Nel libro “Questione di gusto” di John Prescott questi aspetti legati al motivo che ci spinge a scegliere che cosa mangiare sono messi in fila e ci fanno riflettere sul nostro libero arbitrio. Che, forse, tanto libero non è.