Little EnglandI Brexiteers sognano il modello Singapore, ma non parlano mai della sua dittatura

Boris Johnson ha promesso di creare un’economia con bassa tassazione e poche regole capace di competere con Bruxelles. Ma non si dovrebbe confrontare un Paese da 67 milioni di abitanti affacciato sulla Manica con una città-Stato da 5 milioni di persone affacciata sullo Stretto di Malacca, governata da una dinastia familiare e poco democratica

LaPresse

Lunedì scorso il premier britannico, Boris Johnson, e il cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, hanno riunito il Build Back Better Council, un gruppo di trenta businessman che rappresentano altrettante aziende di primaria importanza (da BP a British Airways, da Jaguar Land Rover a Google, da Unilever a Visa).

È uno degli strumenti con cui il governo britannico cerca di rimappare l’atlante economico e finanziario del Regno Unito, dovendo tenere conto dell’asimmetrica combo Brexit&Covid, in cui il primo elemento è stato fortemente voluto e il secondo è invece una sciagura inaspettata. E così, per raccontare questo incontro, sui giornali è riemersa la nozione di Singapore-on-Thames, un’espressione coniata nel 2017 dall’allora cancelliere dello Scacchiere, il tory Philip Hammond (che pure, in occasione del referendum sulla Brexit, fu un partigiano del Remain).

Il concetto è poi riaffiorato spesso per indicare, con l’evocativa immagine di una Singapore sul Tamigi, l’ipotesi che il Regno Unito potesse diventare «un’economia con bassa tassazione e poche regole capace di competere con la sclerotica ed eccessivamente regolamentata Eurozona da una posizione strategica collocata a poche miglia marittime di distanza», come scrisse il Guardian, un giornale senz’altro non favorevole a questa soluzione.

Prima, dopo e durante la Brexit, nel dibattito politico inglese si sono periodicamente indicati dei modelli di comportamento per un Regno Unito indipendente dall’Unione europea (se il termine indipendente sembra esageratamente irredentista si deve ricordare che il movimento politico che ha innescato tutto questo si chiamava proprio, e senza alcuna autoironia, United Kingdom Independence Party).

In principio, i modelli citati erano soprattutto la Svizzera e la Norvegia, ma poi si era presto capito che una cosa è avere dei rapporti con l’Ue costruiti in decenni, un’altra e dover ricostruire di colpo un complesso sistema di accordi con un organismo sovranazionale di cui si è fatto a lungo parte e da cui poi si è usciti. E, in più, si era presto capito che Svizzera e Norvegia avevano metabolizzato nei loro rispettivi sistemi un tale quantitativo di norme Ue da non poter soddisfare, come modello, gli appetiti di indipendenza dei Brexiteers più spregiudicati.

Allora nel 2016 l’allora ministro della Giustizia, Michael Gove, che era una delle figure di primissimo piano tra i sostenitori del Leave, disse che, in caso di Brexit, il Regno Unito avrebbe potuto avere gli stessi rapporti con l’Ue che avevano, senza farne parte, l’Albania, la Bosnia, la Serbia e l’Ucraina. Gove presentava questa ipotesi come qualcosa di virtuoso e di promettente ma nei suddetti Paesi stanno ancora ridendo (il premier albanese Edi Rama propose al ministro inglese, come sfottò, la creazione di un organismo alternativo all’Ue, la BBC: British-Balkan Confederation).

Poi è stato il turno della Singapore-on-Thames. E, ancora ieri, sullo Spectator, Ross Clark, un commentatore molto favorevole alla libertà economico-finanziaria e molto nemico di quelli che un tempo si chiamavano lacci e lacciuoli, faceva interessanti considerazioni. Clark scrive che il cancelliere dello Scacchiere Sunak sta pensando di alzare la corporation tax e che questo non rappresenterebbe certo un passo avanti sulla strada con cui Londra potrebbe diventare «una Singapore europea», imitando quella «ex colonia che è riuscita a diventare non soltanto uno dei Paesi più ricchi del mondo ma anche a volare alto nell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite».

Ora, però – al di là delle considerazioni sulla possibilità di comparare seriamente un Paese da 67 milioni di abitanti affacciato sulla Manica con una città-Stato da 5 milioni di abitanti affacciata sullo Stretto di Malacca, al di là della consapevolezza che Singapore-on-Thames è soltanto uno slogan aggressivo e semplificatorio per spaventare l’Europa e anche al di là della posizione occupata da Singapore nell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite (l’undicesimo, il Regno Unito è tredicesimo) – bisognerebbe anche considerare che il Paese del Sud-Est asiatico non è esattamente un faro di democrazia e di libertà.

Ricca, efficiente, pulita fino al parossismo, organizzata e levigatissima, la città-Stato di Singapore è stata governata per 31 anni di fila (dal 1959 al 1990) dal suo padre fondatore e grande fratello Lee Kwan Yew. Poi, lasciata la carica di primo ministro, il Nostro è stato ministro anziano dal 1990 al 2004 e poi ministro mentore (tutto chiaro?) dal 2004 al 2011. E, anche ora che il patriarca è morto (nel 2015), ben poco è cambiato. Il primo ministro (da 16 anni) è il suo figlio maggiore, Lee Hsien Loong. E il fatto che nelle elezioni del 2020 l’unico partito di opposizione che è riuscito a entrare in Parlamento sia riuscito anche nell’inedita impresa di ottenere ben 10 seggi su 93 (apperò!) è stato addirittura salutato dalla Bbc come un political shake up. Nientemeno.

A suo tempo il Regno Unito – seppur recalcitrante, geloso della sua insularità e diffidente verso i continentali e la loro moneta comune – fu trascinato quasi a forza nell’Ue. Perché sennò che Europa sarebbe stata senza il Regno Unito di Winston Churchill, senza il grande Paese del Vecchio continente che, più di ogni altro, era sempre rimasto fedele alla «peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora»? Perché sennò, senza il Regno Unito, quale Ue avrebbero mai potuto costruire la Germania e l’Austria di Adolf Hitler (e di Erich Honecker), la Francia di Philippe Pétain, l’Italia di Benito Mussolini, la Spagna di Francisco Franco, il Portogallo di António Salazar, la Grecia dei colonnelli, la Polonia di Władysław Gomułka, l’Ungheria di János Kádár e tutti gli altri Paesi che hanno in un loro passato più o meno recente siffatti tralignamenti che li hanno portati lontanissimi dai famosi valori europei?

Ecco, ma se quel Paese che l’Europa unita aveva voluto a tutti i costi nel club per diventare davvero tale è lo stesso Paese che in seguito, proprio per uscire da quella Europa unita, si è ispirato prima alla Norvegia e alla Svizzera (e fin qui tutto bene, sono due democrazie liberali forse ancora più scintillanti di quella britannica) ma poi all’Albania, alla Bosnia, alla Serbia e all’Ucraina e ora, periodicamente e pervicacemente, a Singapore, allora qualcosa deve essere andato veramente storto. E forse Fareed Zakaria dovrebbe scrivere un nuovo capitolo del suo vecchio «Democrazia senza libertà», dove si parlava sì del modello misto del Sudest asiatico, ma non per proporlo a Londra. 

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