Alcuni partiti di opposizione polacchi – Piattaforma civica (PO), Lewica, Wiosna – hanno lanciato una campagna per spingere le persone di lingua e nazionalità slesiana a dichiararsi come tali – e non polacchi o tedeschi – al prossimo censimento, previsto per quest’anno.
Ideata per contrastare la campagna di ripolonizzazione condotta dall’esecutivo ultra-conservatore guidato dal partito Pis, l’iniziativa ha riportato in auge l’irrisolta questione degli slesiani, una delle minoranze dimenticate dell’Unione europea.
Dopo un paio di decenni di progresso, anche sul piano culturale (sono stati pubblicati i primi dizionari di slesiano e nel 2007 questa lingua ha ricevuto un proprio codice ISO, szl), l’ascesa al potere nel 2015 degli ultranazionalisti ha infatti rappresentato un deludente passo indietro per i diritti degli slesiani.
Come la Galizia raccontata da Martin Pollack, la Slesia era una regione storica che nel corso del secolo breve è stata espunta dalla mappa del Vecchio continente. Iniziò il Novecento come area periferica della Germania guglielmina, di cui rappresentava uno dei cuori industriali, grazie alla ricchezza metallifera del sottosuolo – soprattutto di carbone.
Dopo la Prima guerra mondiale, venne smembrata dalle potenze vincitrici che ne assegnarono piccole porzioni ai nuovi Stati di Austria e Cecoslovacchia, indicendo un referendum per assegnarne invece la maggior parte del territorio a Germania o Polonia, Stato che a sua volta ritornava in vita dopo esser stato cancellato nel 1795. Nonostante al “Plebiscito dell’Alta Slesia” (1921) la maggioranza optò per restare alla Germania, l’esplosione di conflitti furibondi tra fazione filopolacca e fazione filotedesca spinse gli Alleati ad assegnare la parte più industrializzata della regione a Varsavia e il resto a Berlino.
La Germania hitleriana vendicò l’onta subita occupando l’intera regione dopo l’invasione della Polonia (1939). Alla fine della Seconda guerra mondiale, quando l’Unione sovietica rifondò lo Stato polacco traslandolo di centinaia di km verso ovest, Varsavia ne riacquisì il controllo. La Polonia che si avviava a diventare un satellite sovietico perdeva così territori a favore delle neo-costituite repubbliche socialiste di Bielorussia e Ucraina e spostava il proprio confine occidentale sulla famosa linea Oder-Neisse, ottenendo territori storicamente tedeschi, tra cui la Slesia.
Le autorità comuniste diedero il la a una campagna di polonizzazione di queste regioni: i tedeschi vennero espulsi e si negò che esistessero un’identità e una lingua slesiane, sostenendo che gli slesiani non fossero che polacchi imbastarditi dalla frequentazione con i tedeschi. Le richieste di autonomia e di tutela dello status di minoranza vennero represse fino alla Caduta del muro di Berlino.
Il territorio storicamente considerato Slesia che oggi si trova in Polonia è suddiviso in tre voivodati (le unità amministrative sub-statali polacche): la Slesia (capoluogo Katowice), porzione di ciò che un tempo era l’Alta Slesia, la Bassa Slesia (Breslavia/Wrocław) e il voivodato di Opole.
Quest’area è ancora il cuore carbonifero del paese, dunque una delle zone più contrarie al progetto di decarbonizzazione avanzato dalla Commissione europea.
L’ultimo censimento (2011) ha sancito che oggi gli slesiani rappresentino la minoranza più numerosa (circa 850 mila persone) della Polonia, stato che le pulizie etniche e i genocidi dello scorso secolo hanno reso quasi perfettamente monoetnico.
Abbiamo intervistato lo storico Tomasz Kamusella, uno dei massimi esperti della questione slesiana e appassionato difensore dei diritti di tutte le minoranze etniche, specie nell’Europa centro-orientale. Il suo ultimo libro è dedicato all’espulsione dei turchi dalla Bulgaria comunista.
Di origine slesiana, Kamusella crede in un’Europa “liberale e democratica”. A causa delle sue ricerche sulla storia delle comunità slesiana in Polonia, nei primi anni 2000 è stato costretto a lasciare il paese (vicenda ricostruita qui). Oggi insegna all’Università di St. Andrews, in Scozia.
Professor Kamusella, perchè è stata lanciata questa campagna?
Le autorità hanno alterato il modulo del censimento in modo da rendere più difficile alle persone dichiararsi slesiane. Quando, per la prima volta dal 1946, nel censimento del 2001 venne introdotta le domande su nazionalità e lingua, la prassi era semplice: si sceglieva dal menù a tendina “nazionalità slesiana” e “lingua slesiana”. Nel censimento successivo la nazionalità slesiana si deve selezionare dopo aver cliccato sull’opzione “altro”: chi non ha dimestichezza con la tecnologia può non accorgersene. Esiste inoltre la possibilità di dichiararsi “polacchi” e poi selezionare una seconda nazionalità, secondaria. Questo avvalora l’idea che l’identità slesiana sia ancillare rispetto a quelle polacca o tedesca, e non possa essere la prima identità nazionale di un individuo.
Come vede gli slesiani il Pis?
Il Pis è una forza autoritaria, nazionalista e antisemita. Il suo leader Jarosław Kaczyński ha dichiarato che «gli slesiani sono cripto-tedeschi», e ha bollato così anche il suo rivale Donald Tusk, i cui nonni nacquero in un’area che all’epoca apparteneva al Secondo Reich. Il nonno di Tusk fu effettivamente intruppato nella Wehrmacht.
Rispetto ai governi precedenti il Pis nega apertamente l’esistenza di un’identità slesiana e crede che gli slesiani siano una sorta di quinta colonna della Germania. Tesi infondata: gli autonomisti slesiani non intendono passare con la Germania o conquistare l’indipendenza, soltanto rivendicano autonomia sul piano culturale e al massimo su quello economico per l’Alta Slesia, come era ai tempi della Polonia inter-bellica. Vogliono che la Polonia riconosca lo slesiano come lingua ufficiale, come già fatto con la lingua casciuba, parlata da molte meno persone.
L’attuale esecutivo polacco tenta attivamente di indebolire, liquidare e sopprimere le organizzazioni politiche slesiane. Un esempio eloquente: alle ultime elezioni regionali in Slesia (2018) il Pis si era trovato con solo 22 seggi su 45, non abbastanza per governare. Ha allora platealmente corrotto un eletto dell’opposto schieramento, dove figuravano partiti sensibili alle rivendicazioni della minoranza slesiana, a cui ha offerto la poltrona di vice-presidente del Consiglio regionale, ottenendo così una risicata maggioranza.
Va ricordato comunque che, essendo gli slesiani profondamente e ideologicamente cattolici come il Pis, molti di loro sostengono il partito di governo.
L’attuale esecutivo è estremamente attivo nel campo della politica della memoria, ambito dove Berlino e Varsavia hanno visioni molto divergenti. Nel 2018 ha, per esempio, criminalizzato l’utilizzo dell’espressione “campi di concentramento polacchi” per riferirsi ai lager nazisti edificati in terra polacca. La questione slesiana ha un ruolo speciale in questa politica?
Sì, ha un ruolo speciale perché viene rimossa. Viene rimossa perché non si sposa con la narrazione governativa. Per esempio, sulla tematica dei campi di concentramento: dopo la Seconda guerra mondiale alcuni campi di concentramento nazisti costruiti su suolo polacco, in Alta Slesia, vennero impiegati dalle forze di sicurezza della Repubblica popolare di Polonia. La maggioranza degli internati erano di etnia slesiana, ufficialmente cittadini tedeschi fino al 1945. Uno di questi campi di lavoro, Zgoda, si trovava a a Świętochłowice. La mortalità di questi campi era del 30%-40%. Ogni anno gli ex internati e i loro discendenti commemorano la “tragedia slesiana”.
Questi campo, la cui esistenza venne negata fino agli anni ’90, erano a pieno titolo “campi di concentramento polacchi”. Per questo al Pis conviene dimenticarli. Silenziare il passato dell’Alta Slesia fa parte della politica di memoria del governo.
Come reagisce la Germania?
Non reagisce. Fin dalla fine della Guerra fredda, la Germania ha sempre rispettato la Polonia, cercando di non apparire più come una potenza ostile. Anche se la minoranza tedesca in Polonia è stata riconosciuta nel 1990, Berlino non ha mai fatto pressioni affinché venissero rispettati i suoi diritti – come per esempio la Polonia con la Lituania rispetto ai cittadini lituani di nazionalità polacca. Le autorità tedesche conoscono bene la situazione, ma esitano dal protestare presso gli omologhi polacchi. Non esiste quindi in Polonia una scuola dove si insegni in tedesco.
Oggi il voivodato della Slesia è la seconda regione polacca per pil, ma è solo negli ultimi anni che l’economia si è risollevata. Come vissero gli slesiani la transizione all’economia di mercato?
Durante il comunismo, molti slesiani lavoravano nelle miniere di carbone e nel settore metallurgico, ai tempi priorità per il governo comunista. Questo garantiva loro un trattamento di favore. Anche quando c’era penuria di cibo, come nei decenni 70’ e 80’, le autorità si assicuravano che questi lavoratori strategici avessero sempre da mangiare. Tenerli buoni ed evitare che espatriassero o si ribellassero era fondamentale. L’esportazione verso Ovest di carbone e acciaio era una delle poche mosse che permetteva al governo di ottenere valute forti.
Con la transizione economica iniziarono i problemi. Le miniere vennero serrate e queste persone si trovarono senza lavoro. Molti di loro emigrarono in Germania.
Berlino, che proprio in quegli anni finalizzava la riunificazione, si mostrò aperta verso questi nuovi immigrati?
La legge tedesca dell’epoca garantiva la cittadinanza alle persone di origine tedesca nate prima del 1993. Ma a quel tempo la Germania doveva fronteggiare gli ingenti influssi dei tedeschi etnici che erano rimasti nei paesi del blocco sovietico dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Era sconsigliabile accogliere così tante persone in un colpo solo. Così come la Polonia non poteva permettersi di perdere dal giorno alla notte centinaia di migliaia di cittadini, l’Alta Slesia sarebbe rimaste spopolata. Già circa 200 mila polacchi lasciarono il paese nel biennio 1989-1991.
Così i due governi si accordarono sottobanco. La Germania emise passaporti anche alle persone che non si erano trasferite fisicamente in terra tedesca, contravvenendo alle proprie stesse norme. Al contempo, la Polonia permise a queste persone di acquisire la doppia cittadinanza, a sua volta un’opzione proibita dalla legge polacca. I due Stati violarono i rispettivi diritti di comune accordo. Fu una soluzione di compromesso: acquisendo il passaporto tedesco, queste persone potevano lavorare come stagionali nella Comunità europea senza essere però spinti a lasciare permanentemente la Polonia. Così gli slesiani conobbero la dimensione europea prima dei concittadini di etnia polacca.