«Pescatori e scienziati hanno lo stesso obiettivo: salvare il mare. È stato questo l’insegnamento più grande che mi ha donato Adrinet». Parola di Elisabetta Bonerba, professoressa dell’Università di Bari e project leader di questo piccolo lavoro di cooperazione portato avanti da Italia, Albania e Montenegro con un milione di euro di budget, per l’85% proveniente dai fondi europei destinati dalla politica di coesione. Il suo racconto a Linkiesta è un concentrato di grandi e piccole difficoltà, gioie e soddisfazioni che ha regalato questo progetto, conclusosi ufficialmente lo scorso 31 dicembre. «Adesso è il momento di tirare le somme, redigere le relazioni finali e valutare ciò che è emerso in questi due anni di ricerca sul campo».
La tutela del mare è da sempre uno dei punti più importanti dell’agenda europea. Lo raccontano i numeri: l’Unione possiede il più vasto territorio marittimo del mondo, con 70.000 km di costa e 111.000 specchi d’acqua superficiali, comprese acque costiere, fiumi e laghi. Salvaguardarlo è importante sia per quanto riguarda l’indotto turistico, che nel Continente dà lavoro a 3,2 milioni di persone e genera più di 183 miliardi di euro di valore aggiunto lordo, sia per quanto riguarda la pesca, che nella sola Italia conta 530 mila addetti e un valore di attività di 34 miliardi di euro, che vale il 2% del PIL.
La dedizione delle istituzioni comunitarie è serio e reale, come raccontano i 77 impegni presi dall’Unione che dal 2014 prende regolarmente parte a “Our ocean”, conferenza internazionale organizzata ogni anno per tutelare tutti i mari e gli oceani: soltanto nell’ultima edizione, quella del 2019 ad Oslo, gli impegni europei sono stati 22, per un valore totale di 540 milioni di euro. Oltre che a livello internazionale l’Europa si impegna a tutelare il mare e la pesca con un suo fondo apposito, il FEAMP (Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca), che porta avanti obiettivi di sviluppo sostenibile del settore.
Nel bilancio comunitario 2014-2020 il FEAMP ha avuto a disposizione un budget di 6 miliardi e 400 milioni di euro, gestiti per l’89% dagli Stati membri che avevano il compito di assicurare una pesca sostenibile e controllare il rispetto delle regole comunitarie nel settore. Il settore viene spesso tutelato anche attraverso accordi di cooperazione tra Paesi, che mostrano però stadi diversi di sviluppo: in questa circostanza intervengono i fondi della politica di coesione europea, destinati ai territori rimasti indietro rispetto agli altri.
È questo il caso di Adrinet che «nasce nel 2018 come progetto di cooperazione tra Italia, Albania e Montenegro per tutelare la biodiversità del comune tratto di mare ma non solo. C’era infatti alla base anche l’idea di lasciare in eredità una conoscenza dei programmi di gestione della pesca a due paesi che sono candidati ufficiali a entrare nell’Unione e che un giorno potrebbero dover rispettare le regole del sistema comunitario», sottolinea Bonerba.
Albania e Montenegro hanno da anni lo status di candidati ufficiali all’ingresso nell’Unione. Tirana lo è dal 2014 e ormai sembra quasi tutto pronto per iniziare la conferenza intergovernativa che darà il via al processo di adesione. Podgorica invece, indipendente soltanto dal 2006, ha già raggiunto l’ultima parte dei colloqui d’adesione: da giugno, infatti, Bruxelles sta esaminando le decisioni delle autorità montenegrine in materia di politica di concorrenza.
«Nel nostro progetto erano coinvolte l’Università di Bari, l’università agricola di Tirana e l’Università del Montenegro insieme ad alcune municipalità, scelte tra quelle dotate di una Marina sviluppata e interessate a uno sviluppo turistico sostenibile. Perciò sono stati coinvolti il comune di Castro, nel Salento, la regione di Vlora, in Albania e il comune di Castelnuovo (Herceg-Novi) in Montenegro».
Due gli obiettivi posti in questi due anni di lavoro. «Il primo è stato trovare insieme ai pescatori delle tecniche di pesca meno impattanti per la biodiversità marina. Il nostro paese rispetta le leggi europee che prevedono dei periodi di fermo pesca e il divieto di pescare alcune specie. Regole del tutto assenti dall’altra parte dell’Adriatico: basti pensare che in Albania si pescano tranquillamente i datteri di mare. Per questo insieme ai Comuni abbiamo avviato un progetto di istruzione dei pescatori che ha portato anche a uno scambio: quelli di Castro sono andati in Albania e Montenegro a conoscere i loro colleghi che però non hanno potuto fare altrettanto a causa della pandemia».
Il secondo punto è stato però il più importante perché ha riguardato le cosiddette “reti fantasma”, le reti perse nel mare dai pescatori. Nell’ultimo anno la guardia costiera italiana ha recuperato ben 6 tonnellate di reti, un quantitativo di plastica assimilabile a 200 mila bottiglie. «Un problema grave perché questa plastica viene poi ingerita dai pesci. Prima di procedere con il lavoro di recupero abbiamo mappato le reti con gli scuba divers e poi abbiamo deciso di rimuovere quelle meno impattanti perché alcune avevano creato intorno a loro una sorta di equilibrio marino, di microambiente che non abbiamo voluto turbare ancora».
Le reti fantasma sono uno dei problemi più importanti dei nostri mari. Lo svelano i numeri della Commissione europea: 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono nel mare ogni anno e la maggior parte sono reti perse dai pescatori. Il loro tempo di decomposizione è di 600 anni, un tempo lunghissimo durante il quale continuano a catturare e distruggere vita marina. Un problema che riguarda non solo l’Europa ma tutto il mondo, visto che l’isola di plastica del Pacifico, la Great Pacific Garbage Patch, è composta per il 46% delle sue 103 tonnellate di spazzatura da reti abbandonate. Per risolvere questo problema Adrinet ha trovato una soluzione. «Abbiamo donato ai pescatori 6 mila microchip da applicare alle loro reti in modo tale da poterle rilevare quando le perdono. Questo permetterà di sapere sempre dove sono e anche di sanzionare il proprietario che non ne denuncia la perdita».
Il problema delle reti è estendibile a quello di tutti i rifiuti, dove non mancano le difficoltà. «Tra gli obiettivi iniziali di Adrinet più ambiziosi, che però abbiamo lasciato subito perdere, c’era quello del recupero dei rifiuti. Finalmente dopo anni in Italia abbiamo una nuova legge salva mare che permette ai pescatori di tenere a bordo i rifiuti pescati insieme al pesce, anche se non hanno un codice CER. Il punto è che adesso che abbiamo una legge serve tutto il resto: posti dove smaltirli sulla banchina, centri per il riciclo, fondi appositi e programmi sia nazionali che regionali che aiutino in primis i pescatori, che magari possono svolgere la funzione di “spazzini del mare” nei periodi di fermo pesca. Un’attività importante, che però andrebbe remunerata».
E qui subentra una delle questioni su cui un intero settore dovrebbe riflettere: l’età media dei pescatori, che in Europa è sopra i 60 anni. «La questione più grave che ho riscontrato è stata questa. Serve agire subito, perché un intero settore rischia di scomparire senza un adeguato ricambio generazionale. Il problema però sono proprio gli stessi pescatori che sono i primi a sconsigliare ai loro figli di fare il loro mestiere, perché totalmente dipendente dalla propria attività. Nella pesca inoltre non è possibile coinvolgere manodopera straniera, come in agricoltura, perché è obbligatorio saper nuotare». Una crisi adesso aggravata anche dalla pandemia, che ha portato molti consumatori a privilegiare nuovamente i prodotti a filiera più lunga penalizzando proprio la pesca. «Per questo serve ridare a questo settore un ruolo sociale importante e rendere nuovamente orgogliosi coloro che ne fanno parte. Così magari potranno nuovamente trasmettere ai giovani la loro passione per il mare».