Nomi comuniNon ci sono mai state così tante grandi città contendibili e così pochi candidati forti

Amministrazioni uscenti non formidabili e grande rimescolamento politico: Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna sono tutte conquistabili. Eppure i partiti annaspano nella ricerca di personalità convincenti per la corsa a sindaco. E sperano in un rinvio

Un calcio di rigore a porta vuota, senza nessuno che lo voglia tirare: appare così agli occhi di noi comuni mortali la prossima partita per il governo delle città, perché quasi ovunque le poltrone sono altamente contendibili, gli uscenti ammaccati da troppi fallimenti, e tuttavia ovunque i partiti sembrano incerti e prendono tempo, confidando segretamente in un rinvio a settembre causa Covid. A ogni latitudine il problema è lo stesso. Mancano i candidati. I potenziali nomi da mettere in campo sono troppo fragili per sostenere il confronto con il cimento di Roma, Milano, Torino, Napoli, Bologna, città dove non puoi spedire a far campagna le seconde file.

È una banalità dire che le Amministrative in metropoli così sono un test, eppure è quella la parola di riferimento. Cinque anni fa è stata la sfida per i primi cittadini a dirci che il M5S stava tracimando come un’onda anomala, travolgendo ogni precedente equilibrio della politica. Oggi ci racconterà fino a che punto quella piena è tornata negli argini, e soprattutto se i partiti tradizionali sono riusciti a sostituirla con qualcosa di più credibile e capace di alimentare speranze. Al momento, non sembra sia successo, visto che – a due mesi dalla scadenza – né la destra né la sinistra avanzano proposte.

Roma e Milano sono gli epicentri della “crisi dei nomi”. Nella Capitale, oltre l’autocandidatura della sindaca Virginia Raggi e quella di Carlo Calenda, è il deserto. Il Partito democratico pensa all’ex ministro Roberto Gualtieri o forse no, e anche il centrodestra non riesce a trovare un appiglio in carne e ossa alla sua vantata primogenitura. Guido Bertolaso è in tutt’altre faccende affaccendato, il capo della Croce rossa italiana Francesco Rocca ha rifiutato, quello del Credito sportivo Andrea Abodi non ha escluso l’ipotesi ma ci ha pensato Maurizio Gasparri a impallinarla prima che si facesse strada («È bravo, sì, ma chi lo conosce?»).

Eppure la Raggi è stra-battibile, come potrebbe aprirsi anche la battaglia milanese, dove già cinque anni fa Giuseppe Sala prevalse solo per lo scarso sostegno della Lega al moderato Stefano Parisi (finì 51 a 48). Oggi, con Matteo Salvini uscito dal ruolo del lanzichenecco e divenuto colonna della maggioranza di Mario Draghi, il centrodestra potrebbe cogliere il risultato che gli manca da una quindicina di anni. Eppure, anche lì, la domanda “chi candidiamo?” resta inevasa e le scelte vengono rinviate settimana dopo settimana.

Solo otto anni fa, nel 2013, alle primarie democratiche per Roma il Pd schierò nomi come Davide Sassoli e Paolo Gentiloni (poi, vinse a sorpresa il marziano Ignazio Marino), che oggi sono rispettivamente presidente del Parlamento europeo e Commissario Ue. Solo cinque anni fa, nel 2018, la destra mise in campo Giorgia Meloni, che oggi è leader del solo partito di opposizione italiano e artefice della triplicazione dei suoi consensi. Pezzi da novanta, tutti, e tutti disponibili alla sfida.

C’è da chiedersi perché, in un lasso di tempo così breve, le filiere di partito si siano esaurite al punto che nessuno ha più un Sassoli, un Gentiloni, una Meloni (ma neanche un Marino) da mettere in campo, nessuno ha coltivato figure capaci di aspirare alla posizione di sindaco di una città importante. È un altro dei sintomi della deriva senile dei partiti e della loro decrescente capacità di esercitare l’arte della politica: una parola che deriva da “polis”, città, e che nasce proprio come esercizio della democrazia in ambito cittadino.

Se alla polis non si ha più niente da dire, se non si hanno nomi ed energie “allevati” per governarla o comunque rivendicarne il governo, se addirittura si spera nel rinvio di una campagna elettorale per mancanza di candidati disponibili, significa che non si è più capaci di far politica. E la domanda ovvia, per noi comuni mortali, diventa: va bene, l’onda dell’antipolitica si ritira, ma al suo posto che cosa ci mettiamo? Non è che possiamo cercare un Mario Draghi per ogni Comune italiano, o commissariare le metropoli come, di fatto, si è commissariato il governo nazionale: almeno lì, i partiti, una soluzione decente devono indicarla.

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