La via del fiascoPerché i Paesi baltici hanno snobbato la conferenza economica con la Cina

Il vertice 17+1 tra Pechino e gli Stati dell’Europa centro-orientale (PECO) si è rivelato un flop nonostante la presenza di Xi-Jinping: «Preferiamo usare molto di più il formato UE 27 + 1 e rivolgerci alla Cina attraverso le politiche comuni dell’Europa», ha detto il portavoce del primo ministro estone

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Un colpo a vuoto. La Cina sperava di ottenere qualcosa di più dal vertice con i Paesi dell’Europa centro-orientale (PECO), la famosa Conferenza 17+1, tenutasi martedì 9 febbraio in videoconferenza con la partecipazione straordinaria del presidente Xi Jinping, una prima volta assoluta visto che nelle precedenti riunioni era sempre stato presente il primo ministro Li Keqiang. La presenza del Leader supremo non ha però portato fortuna. Le mirabolanti promesse cinesi si sono infrante contro i dubbi degli europei, che anzi hanno chiesto a Pechino una maggiore apertura del suo mercato interno per i prodotti agroalimentari.

Un attacco portato avanti sia dai capi di stato e di governo europei che dai ministri, visto che alcuni Paesi hanno preferito snobbare l’evento. A guidare questo gruppo c’era l’Estonia che ha mandato la sua ministra degli esteri, Eva-Maria Liimets, al posto della presidente della Repubblica o della nuova premier Kaja Kallas. «Preferiamo usare molto di più il formato UE 27 + 1 e rivolgerci alla Cina attraverso le politiche comuni dell’Europa», ha detto il portavoce del primo ministro estone. Un vero e proprio schiaffo per Xi Jinping a cui si è presto unito quello di Lituania, Lettonia, Romania, Bulgaria e Slovenia che hanno ugualmente disertato l’incontro.

A questo tipo di incontri i cinesi ci tengono molto, sin dal 2012. La conferenza 17+1 nasce infatti allora su iniziativa del ministero degli Affari esteri cinese per promuovere relazioni commerciali e di investimento con alcuni Paesi europei ed extra europei (come Albania, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Grecia, Lituania, Lettonia, Macedonia del Nord, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia e Ungheria). La tempistica non è casuale perché quello era un momento di profonda crisi economica per il Vecchio Continente.

La strategia divide et impera di Xi Jinping negli anni ha però pagato i suoi dividendi, visto che la Cina è riuscita a farsi dei potenziali alleati all’interno delle istituzioni europee a cui chiedere favori in cambio di investimenti. I finanziamenti cinesi in Europa però hanno delle clausole e degli allegati molto duri da rispettare che i corrispettivi europei (o americani, o giapponesi) non hanno mai avuto: questo ha reso negli anni gli investimenti molto più difficili. Un dato vale per tutti: tra il 2010 e il 2019 i cinesi hanno speso nei 12 Paesi comunitari all’interno dei PECO appena 8,6 miliardi di euro, una somma inferiore a quello che per esempio Pechino ha investito in Finlandia (12 miliardi di euro) o nei Paesi Bassi (10,2 miliardi).

Anche se in crescita nell’ultimo anno (nel 2020 gli investimenti cinesi in tutti e 17 i Paesi PECO sono stati 85,33 miliardi di euro) questi soldi hanno sempre avuto come unico scopo quello di portare avanti i progetti cinesi, in primis la Belt and Road iniziative, la Nuova Via della Seta.  L’autostrada E763 in Serbia, il ponte Peljesac in Croazia, la ferrovia Budapest-Belgrado, la linea espressa terra-mare tra Cina e Europa sono tutti progetti che rientrano nel grande piano di Xi di farsi alleati in Europa alle sue condizioni a cui si uniscono gli investimenti nei porti di otto Paesi europei, il più importante dei quali è quello nel Pireo, in Grecia.

Per questo e per la recente firma sul trattato di investimenti Cina-Europa il governo di Xi Jinping non si aspettava queste defezioni. «I cinesi pensano che non ci stiamo mettendo la faccia ed è per loro una grande sorpresa, visto che tutti i 27 Paesi avevano approvato il patto di investimenti tra Bruxelles e Pechino», ha rivelato un alto funzionario europeo a Politico.eu. Il tentativo di convincere gli Stati perplessi a ripensarci è andato avanti sino a martedì mattina quando ancora Pechino non aveva praticamente reso noti i dettagli dell’incontro. Ma niente da fare. «Quando si tratta degli Stati baltici è davvero semplice: c’è la Russia. La Cina si sta già rendendo conto che gli Stati baltici si stanno ritirando lentamente, un divorzio silenzioso», ha dichiarato Una Bērziņa-Čerenkova, capo del China Studies Center presso l’Università di Rīga Stradiņš in Lettonia. Una tesi corretta.

Non è un caso che da un po’ di tempo le tre Repubbliche baltiche siano tornate a volgere il loro sguardo con maggiore insistenza verso ovest, soprattutto a Bruxelles, e alla politica di unità invocata dall’Alto Rappresentante UE Josep Borrell, e a Parigi. La Francia ha infatti stretto un rapporto speciale con Estonia, Lituania e Lettonia certificata dalla recente visita del ministro degli esteri lituano a Parigi. La cooperazione franco-baltica in materia di difesa e sicurezza va letta soprattutto in funzione antirussa e agevola il lavoro del nuovo presidente statunitense Joe Biden, desideroso di ricostruire un rapporto con l’Europa per agire insieme contro Mosca e Pechino.

Washington si è mostrata preoccupata dell’utilizzo disinvolto da parte del governo cinese di strumenti come la Conferenza 17+1. «Rimaniamo preoccupati per il fatto che la Cina ha spesso utilizzato organizzazioni multilaterali come strumento per far avanzare i suoi aspetti economici o i suoi interessi in materia di sicurezza nazionale o politica estera a scapito della pace e della prosperità di altri paesi, del rispetto dei diritti umani e dell’ordine internazionale basato su regole», ha dichiarato un portavoce del Dipartimento di Stato.

Con simili premesse non c’era da aspettarsi molto. Infatti, i Paesi europei hanno evidenziato al presidente Xi Jinping il loro disappunto per la promessa di un’apertura del mercato cinese alle esportazioni agroalimentari provenienti dall’Europa, mai realizzata. Un cahier de doléances a cui si sono iscritti la vicepremier bulgara Mariyana Nicolova, che ha chiesto al governo cinese «di semplificare e accelerare le procedure burocratiche», e il presidente della Repubblica polacco Duda che ha manifestato «l’insoddisfazione della Polonia per i dazi ancora presenti sulle esportazioni di Varsavia in Cina». L’unico che ha potuto cantare vittoria è stato Igor Matovic, premier della Slovacchia, che, dopo aver fatto filtrare la sua possibile assenza, si è presentato regolarmente all’incontro non prima di aver firmato un accordo con Xi Jinping per vendere più agnello in Cina.

Alle richieste europee il leader di Pechino ha dovuto rispondere con altre promesse che spaziano dall’agricoltura al vaccino, visto che ha offerto agli europei il cinese Sinopharm di cui Belgrado è stato finora il primo e unico beneficiario. Non solo: Pechino ha anche promesso di portare a 140 miliardi di euro l’anno l’importazione di beni da questi Paesi e di raddoppiare l’acquisto di prodotti agricoli. “Parole, soltanto parole” canterebbe Mina e la dimostrazione del fallimento dell’incontro è data dal tweet di Dimitar Bushati, ex ministro degli esteri albanese. «Il vertice si è svolto in un’atmosfera divisa e ci sono stati problemi anche a emettere un comunicato congiunto. A quasi dieci anni dal lancio di quest’iniziativa il format è sceso al di sotto delle aspettative».