Da fattorini a rider SO-DEIl delivery etico è possibile?

Una riflessione sul passato e sul futuro delle consegne a domicilio, per capire la centralità di questo servizio nel presente e immaginare soluzioni per renderlo sostenibile nei prossimi anni

Il dibattito sul delivery dura da tempo. Gli ingredienti della miscela che compongono questo servizio la rendono, da sempre, potenzialmente esplosiva, ne abbiamo scritto più volte anche su queste pagine. É un servizio che, già prima della pandemia che l’ha reso spesso imprescindibile, era amato e conosciuto dai clienti, che ne facevano ricorso per comodità, perché poco abili in cucina, o per concedersi qualche piccolo lusso senza uscire di casa, perché soli, per convivere con ritmi lavorativi stringenti.

Dunque, la domanda dei consumatori si può considerare il primo ingrediente ormai ineluttabile. Il secondo è l’offerta e non è una novità, infatti, già nell’era analogica, ossia prima dell’avvento delle piattaforme di delivery digitali, si poteva alzare la cornetta e chiamare un esercizio pubblico, il più delle volte una pizzeria di quartiere, e farsi recapitare a casa una pizza da un fattorino dello stesso locale. Fattore, dunque, da registrare come positivo dal momento che, non solo aumenta i ricavi e i margini dell’impresa, ma permette di garantire posti di lavoro.

Terzo ingrediente, emerso, appunto, con la nascita delle società di delivery, terze rispetto ai servizi di consegna svolti in proprio da dipendenti dei ristoranti, è lo sviluppo esponenziale delle possibilità che questa nuova modalità offre, sia ai ristoratori sia ai clienti. I primi possono approfittare di un servizio a costi variabili, aumentando, così, la propria offerta senza incidere sui costi fissi. I secondi possono allargare a tutto il territorio cittadino la varietà di ristoranti e cucine dove ordinare un pasto.

Già su questo ingrediente, però, qualche naso che si storce da parte dei ristoratori ci sarebbe, infatti, nel breve tempo in cui questi servizi hanno preso piede, le società che gestiscono i cosiddetti rider, che prima, nella fase ancora autarchica del servizio, si chiamavano fattorini, hanno gradualmente, ma inesorabilmente, aumentato i propri margini di guadagno, con punte di sgradevole speculazione nel periodo che stiamo vivendo, quando le frequenti situazioni di quarantena che i vari decreti governativi o regionali impongono, hanno aumentano a dismisura la domanda. Alcuni ristoratori, vedendo diminuire al limite della convenienza in propri margini, si stanno ribellando e stanno pensando ad alternative per la consegna.

L’ingrediente, però, forse più dibattuto e che agita le coscienze di molti, è l’attività dell’ultimo anello di questa catena, che, non a caso, definiamo così, perché, nello sfruttamento di cui i rider sono vittime, si rivedono alcuni dei comportamenti eticamente inaccettabili che, in piena rivoluzione industriale, prima che dell’introduzione delle tutele minime per la dignità di ciascun lavoratore, erano proprie della catena di montaggio di un qualsiasi reparto di una fabbrica.

Il dibattito è aperto da tempo perché sul piatto della bilancia ci stanno due fattori di cui è difficile capire l’equilibrio: da una parte, innegabilmente, quello del rider è un lavoro, tuttavia, a oggi, la dignità di questo lavoro è ben al di sotto della soglia di tolleranza, così molti clienti vivono nel dilemma, contrastante e lacerante, di essere parte di un sistema che, al contempo, ripaga e sfrutta il lavoratore. Come uscirne?

Tra i primi a sottolinearne le storture, nonché i rischi per la salute e la sicurezza personale dei lavoratori delle piattaforme di Food Delivery, furono gli ideatori del gruppo di opinione chiamato “DOOF, l’altra faccia del food”, un team di persone esperte del settore ristorazione guidati da Valerio Massimo Visintin, critico gastronomico del Corriere della Sera, che, in diversi convegni di settore, affrontarono l’argomento cercando di ipotizzare una soluzione che garantisse tutti i soggetti coinvolti, a partire dai lavoratori, pagati il giusto e tutelati nei propri diritti essenziali, ai ristoratori e agli intermediari beneficiati di un equo guadagno, fino ai clienti rassicurati di svolgere la propria parte senza essere e, soprattutto, sentirsi complici di un’ingiustizia.

In questo contesto si arrivò a coniare il termine DOOF Delivery, quasi a voler ribaltare, con l’uso delle parole, i termini della questione, trovando, finalmente, una soluzione etica che potesse rispondere a tutti i dilemmi esposti e annullare il carico esplosivo della miscela degli ingredienti, trasformandola in un vantaggio positivo per tutti i protagonisti. Un servizio, ipotizzarono allora Visintin, Samanta Cornaviera e il sottoscritto, che avesse anche un côté solidale, magari impiegando personale che avesse perso l’impiego o che, comunque, per un qualsiasi motivo, si trovasse in difficoltà economica.

Sono passati alcuni anni e la pandemia, avendo fatto esplodere il mercato del delivery – oggi non più solo legato al cibo –  se da una parte ha estremizzato le situazioni già al limite della sopportazione generando proteste e accentuando ingiustizie, dall’altra ha permesso che la creatività e la lungimiranza di alcune istituzioni stimolassero la nascita di qualcosa che a quel servizio di Doof Delivery immaginato a tavolino assomigliasse.

In questi giorni il Comune di Milano ha selezionato alcuni progetti dal bando del Crowfundig Civico, una nuova modalità, messa a punto per finanziare progetti sociali e culturali nei quartieri dove il Comune, gli enti non profit e i cittadini uniscono le forze per migliorare la città.

In pratica, attraverso la piattaforma “Produzioni dal basso”, chiunque può contribuire sostenendo i diversi progetti accolti. Ogni realtà selezionata ha 60 giorni per raccogliere una parte delle risorse (il 40%) attraverso piccole donazioni dei cittadini. Il Comune finanzierà il resto dei costi (il 60%) con un contributo a fondo perduto fino a 60.000 Euro.

Tra questi progetti uno è proprio dedicato alla consegna a domicilio; nasce a Dergano, un quartiere della periferia nord di Milano, un luogo che ha dimostrato in questi anni grande fermento e sensibilità, promuovendo realtà come le social street o associazioni che hanno avuto come scopo creare uno spirito di comunità e solidarietà che, guarda caso, proprio durante i periodi di quarantena pubblica forzata, ha contribuito a fornire servizi essenziali a tutti i cittadini, in particolare quelli più fragili alleviando i tanti disagi vissuti. In questo contesto virtuoso è nata SO-DE (Social, Solidale, Sostenibile –  DElivery), non tanto lontano da quel Doof Delivery, ma, giustamente adeguato a tutti i servizi che questa neonata attività vuol fornire, partendo dalla consegna di cibo, fino a libri, piante, abbigliamento, insomma qualsiasi cosa trasportabile, ma non solo, anche una rappresentazione teatrale mobile. Non è, però, importante ciò che si offre, anche se dare lavoro anche ad artisti, colpiti duramente dallo stop di questi mesi, vale molto; è fondamentale, invece, l’aspetto legato alle tutele dei lavoratori che beneficeranno di un contratto di lavoro subordinato vero, con tutte le tutele, corso di formazione compreso, finalizzato a gestire al meglio il proprio mestiere, imparando a fare piccole riparazione al mezzo di trasporto, a conoscere il codice della strada, a migliorare le proprie competenze in materia di relazioni interpersonali, nonché apprendere le basi delle norme sulla sicurezza del lavoro. Il progetto, inoltre, essendo immaginato per un quartiere, ha l’ambizione di far diventare questi “So-De-Rider”, selezionati, peraltro, nelle categorie più fragili, un persona di famiglia, un po’ come quei portieri dei grandi palazzi dei film americani che conoscono tutto degli abitanti e, spesso, nella narrazione cinematografica sono degli angeli custodi. Non c’è che augurarsi che questa scintilla alimenti un fuoco rigoglioso e spinga anche le multinazionali del delivery a rivedere le proprie pratiche, magari capendo che l’etica col tempo le farà guadagnare di più, cancellando i sensi di colpa che attanagliano ristoranti e clienti.

 

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