Dopo l’infelice tentativo della candidatura di Giuseppe Conte nel collegio di Siena, rapidamente accantonata in seguito alle perplessità manifestate dai democratici toscani, la creazione dell’intergruppo parlamentare Pd-M5s-Leu era già la seconda iniziativa puntualmente battezzata dai giornali come l’atto di nascita del «partito di Conte».
Non ho usato l’imperfetto a caso, perché è finita allo stesso modo, almeno per ora. All’annuncio della decisione presa martedì dai capigruppo giallorossi del Senato, infatti, ieri non è seguita analoga comunicazione alla Camera, una volta che il significato politico della scelta è apparso chiaro a tutti. In entrambe le occasioni, candidatura a Siena e intergruppo in parlamento, l’avvocato del popolo avrebbe forse fatto meglio a frenare l’entusiasmo prima di benedire ufficialmente l’operazione (anche nell’ipotesi in cui fosse stato proprio lui ad avviarla, o magari a farla avviare da qualche solerte compagno di strada). Specialmente la seconda, da lui subito definita «giusta e opportuna», aggiungendo pure che «in questa fase è ancora più urgente l’esigenza di costruire spazi e percorsi di riflessione che valorizzino il lavoro comune già svolto». Sarà per la prossima volta.
Di sicuro sarebbe stato più saggio accertarsi prima dell’effettiva disponibilità degli alleati e anche della praticabilità del campo. Sta di fatto che ieri i deputati del Partito democratico hanno praticamente lasciato cadere la proposta, dopo una riunione in cui il capogruppo Graziano Delrio non ne ha nemmeno fatto cenno nell’introduzione, per poi liquidarla nelle conclusioni con un generico rinvio a tempi migliori, al termine di un dibattito in cui anche la corrente più consistente, Base Riformista, si è messa di traverso.
Va anche detto che già lo strumento dell’intergruppo parlamentare non si prestava molto a fare da trampolino di lancio al progetto della riscossa contiana, trattandosi di una soluzione che generalmente viene utilizzata da forze politiche opposte su temi specifici (dunque l’esatto contrario di quello che ne volevano ricavare gli irriducibili khmer giallorossi), come ieri aveva spiegato in tv anche un disorientato Nicola Fratoianni, cioè il più irriducibile di tutti, tanto da non votare nemmeno la fiducia a Draghi.
Se la fine è stata rapida e ingloriosa, ciò non significa tuttavia che la manovra non abbia comunque prodotto degli effetti, e anche molto significativi. Anzitutto perché ha dato occasione a Giorgia Meloni di rientrare in gioco, proponendo un’iniziativa simmetrica al centrodestra.
Il fatto che per ora anche questo tentativo sia stato lasciato cadere dagli alleati non toglie nulla al significato politico della mossa, che un risultato lo ha ottenuto comunque, e cioè il fatto che anche ieri, persino ieri, proprio mentre Mario Draghi pronunciava il suo discorso in parlamento e faceva appello all’unità di tutte le forze politiche, i partiti si mostrassero già attivamente impegnati nello scavare le rispettive trincee.
Difficile dire se questo fosse sin dall’inizio l’obiettivo di Conte e magari di un pezzo del Movimento 5 stelle, o se sia stato semplicemente un effetto collaterale del loro tentativo di scalata al centrosinistra.
Resta incomprensibile, in ogni caso, come il Partito democratico possa essersi prestato a una simile manovra, a meno di non pensare davvero che anche il governo Draghi per il Pd sia ormai una variabile secondaria e forse anche sacrificabile sullo scacchiere strategico delle prossime elezioni amministrative, e della relativa politica delle alleanze.
Prima di decidere chi vogliono sostenere a sindaco di Roma o di Torino, i democratici dovrebbero forse chiarirsi un po’ meglio le idee su chi intendono sostenere a Palazzo Chigi, e magari farlo sapere anche all’attuale inquilino.