Se aziende come la Fumagalli Danilo, punta da sempre a rifornire con cibi di qualità le dispense dei stellati, c’è chi ha voluto distaccarsi dalla distribuzione alimentare e fare da sé. Negli ultimi vent’anni l’autoproduzione di materie prime ha rappresentato un tassello sempre più importante nella ristorazione. Molti chef la praticano da tempi non sospetti, per avere sempre a disposizione prodotti freschissimi e poter persino scegliere il punto di maturazione perfetto per la loro ricetta (quindi anche l’acerbezza invece della perfetta maturazione) di frutta e verdura. Ma non tutti gli chef hanno il pollice verde o la conoscenza necessaria per fare un orto. Così c’è chi ha pensato di aiutarli, mettendo al servizio dei cappelli alti la propria esperienza agricola.
I pionieri del ristorante con orto
«La grande cucina si fa nel campo, come i grandi vini in vigna». Con questo motto Alfonso Iaccarino ha impostato il Don Alfonso, un ristorante che sfrutta il concetto farm-to-plate per raccontare il suo terrtorio. Con il figlio Ernesto ha messo su un’azienda agricola, Le Peracciole, a Punta Campanella. Dai sette ettari a picco sul mare arrivano olio d’oliva, ortaggi e limoni per il liquore della casa.
Un altro pioniere del ristorante con orto è stato Pietro Zito. Il suo motto è «Seminare, coltivare, raccogliere. Poi… di nuovo». A Montegrosso, pochi chilometri fuori da Andria, quest’uomo che non ama essere definito chef, negli anni Novanta ha iniziato con l’idea di servire i classiconi del periodo: pennette alla vodka, farfalle panna e salmone… Ma i commessi viaggiatori che si fermarono alla sua tavola nel primo giorno di vita del suo ristorante, chiesero qualcosa di diverso. Allora con sua mamma in cucina che faceva le orecchiette e suo padre che raccoglieva le rape dell’orto, scoprì il Dna del suo ristorante, oggi luogo di culto anche per i giapponesi, Antichi Sapori. Qui il menu lo decide il campo e nessun altro.
Ma se al Sud gli orti degli chef sono numerosi e ormai consolidati e divertenti, come quello di Peppe Zullo a Orsara di Puglia, al Nord inizia a diventare un imperativo sempre più pressante. Matteo Baronetto lo ha impiantato a Cascina Orsolina per il suo Del Cambio: quattromila metri quadrati in gran parte terrazzati, progettati dal maestro di agricoltura sostenibile Umberto Bonifacino. Tra le new entry c’è anche Antonia Klugmann: il suo orto in progress riscrive costantemente la carta de L’Argine a Vencò.
Da dove viene questa mania
Se l’esigenza sembra comprensibile negli agriturismi o nei ristoranti di provincia, vicini alla campagna, sembra bizzarra per i bistrot urbani o gli stellati delle grandi città, che potrebbero aver accesso alle migliori materie prime attraverso i giusti interlocutori. Tempo fa, sul Gambero Rosso, Massimiliano Toninelli sosteneva che uno chef «non deve prodursi le sue verdure, deve essere piuttosto quell’operatore del territorio che, grazie alla sua azione, alla sua cultura, alla sua capacità, convince i produttori esistenti a migliorare la loro di produzione». Anche per non disperdere le energie.
Eppure ci sono chef che senza l’orto si sentirebbero perduti. Quel contatto primordiale con la terra li spinge a immaginare, creare e persino migliorare i propri piatti grazie alla comprensione del ciclo di vita di un ortaggio e dei suoi scarti. Basti pensare all’opera che Franco Aliberti fa da sempre sulle parti meno pregiate dei vegetali, così essenziali nelle sue carte. Inoltre, c’è un elemento che non sfugge a chi è un attento osservatore della vita di cucina dei ristoranti. Avere un orto significa aprire e chiudere la filiera. Significa avere il controllo totale su ciò che serve. Oltre a tagliare un intermediario nel food cost.
Per Michelangelo Mammoliti, classe 1985, «l’orto è l’espressione più democratica del fare umano». Con il suo La Madernassa a Guarene, in provincia di Cuneo, ha conquistato due stelle Michelin ed è molto chiaro sul tema del controllo. Dai semi al concime (fatto con scarti di vegetalo e fogliame), lui segue tutto il processo e sceglie il momento più opportuno per la raccolta, creando un processo che gli permette di coltivare anche l’aspirazione alla perfezione.
Manna in terra
Ma per quanto sia bello e desiderabile, non tutti gli chef hanno il tempo di costruirsi un orto su misura. Da questa evidenza è nato Manna Organic Italia. Il progetto agri food è guidato da Simone Moschini e Alessio Gennari: insieme hanno formato un collettivo con altri agricoltori, destando l’interesse e attivando collaborazioni con importanti chef come Carlo Cracco e Filippo Saporito. Nel progetto è coinvolta anche Ilaria Legato del gruppo Food Designer, che ha implementato il lancio e la costruzione di un modello che possa attivare un circolo virtuoso tra i vari attori e le varie identità territoriali.
«Per comprendere il senso del modello ispirato da Harald Gasser, fondatore di Manna Organic occorre pensare ai modus operandi e alle conoscenze sulla biodiversità», spiega Legato. Gasser ha creato Manna Organic nei primi anni 2000: era un’associazione di piccoli agricoltori naturali dell’Alto Adige. Nel suo maso Aspinger Raritaten, Gasser coltiva oltre 500 varietà antiche di ortaggi. La sua missione aveva ispirato altri agricoltori della zona. Nel 2020 è nata Manna Organic Italia, con due sedi operative: una in Toscana e una in Emilia Romagna. Si lavora a stretto contatto con gli chef, in un rapporto in cui l’ispirazione va da chi sta in cucina a chi sta nel campo.
A farsi sedurre da questo progetto sono stati Filippo Saporito, Presidente JRE e proprietario del ristorante stellato La leggenda dei Frati, il bistellato Ristorante Arnolfo dello Chef Gaetano Trovato e l’Osteria Le Logge, a Siena. Al progetto Manna Organic Italia ha aderito anche Carlo Cracco, che nella sua azienda agricola ha deciso di abbracciare questo modello ad alta sostenibilità ambientale.
Manna Organic Italia mette a disposizione una banca semi, con circa 600 varietà e 500 specie vegetali, una vera e propria enciclopedia di note di gusto. Le erbe più richieste? Secondo Moschini la Mertensia maritima (che sa di ostrica) e la Rungia klossii (che sa di fungo). L’obiettivo? Fornire rarità agricole quasi dimenticate a chi ha le energie e la fantasia per convertirle in esperienze gastronomiche indimenticabili.