Ci stiamo abituando a vedere, poco oltre i confini comunitari, ma ormai anche ben all’interno di quel limite, le lunghe teorie di umanità derelitta normalmente fotografate negli scenari di guerra. L’occhio assuefatto all’immagine canonica delle linee di gente bruna a piedi nudi nelle pietraie mediorientali può adesso girarsi verso i nevai balcanici punteggiati dai profughi nel Continente dei settant’anni di pace, fastidiosi foruncoli di vita precaria su tutto quel bianco. E lo sguardo distratto sui campi bombardati nelle infinite guerre africane può rivolgersi ora ai roghi che splendono nelle notti d’Europa, al fuoco che sfolla i rifugi di pali e stracci dei disgraziati respinti alle frontiere della nostra civiltà.
Ma guardare a quest’altro scempio conduce a una considerazione anche più infamante: e cioè che nel primo caso tutta quella violenza è fatta in Paesi dove c’è guerra e fame, mentre l’orrore a noi più prossimo, e al quale appunto ci stiamo abituando, ha normale corso in una temperie di pace e benessere. A ogni persona appena sensibile dovrebbe repugnare il conto dei morti di fame e degli assassinati nelle metropoli di fango e lamiera del mondo senza diritti.
Ma i resti di quelli che abbandoniamo all’assedio del nostro inverno diventano cibo per le bestie che ripopolano la foresta europea, le creature più privilegiate protette dalle normative che assolvono le nostre colpe inquinanti; la materia superstite di quella disperazione vagabonda non si riempie di mosche nella sabbia di qualche deserto remoto, ma si decompone a concime delle nostre coltivazioni; e il lontano bambino nero con il ventre rigonfio e il padre sgozzato ha l’omologo in quello che rabbrividisce davanti a un giaciglio incenerito nel bel mezzo della nostra consuetudine, dei nostri itinerari turistici, nella familiarità di favelle ufficiali dell’Unione che ci consorzia in questa indifferenza.
Ci sono quelli che scappano imbarcandosi dalle coste opposte del Mediterraneo: scappano – e chiedono di essere salvati – dall’inferno che c’è da lì in giù. Questi altri chiedono che qualcuno li salvi da noi, perché siamo diventati noi il loro inferno.