Emergenza migrantiLe parole dei rifugiati ignorati dall’Ue nel campo al confine tra Croazia e Bosnia

Linkiesta è entrata nella “Factory”, un complesso industriale abbandonato e pericolante vicino alla città di Bihac, dove 2500 persone in cerca di asilo in Europa passano le giornate senza disporre di cibo, acqua potabile né riscaldamento con temperature esterne che raggiungono i meno 15 gradi

Factory 2_© Lorenzo Di Stasi

«Lo hanno spogliato di tutto ciò che aveva, lo hanno manganellato e spinto nel fuoco, causandogli una ustione al braccio» racconta C., migrante afgano bloccato al confine Croato-Bosniaco, lì a un passo dall’Unione europea. «Ho provato a continuare la rotta balcanica venendo respinto nove volte: cinque dalla Croazia e quattro dalla Slovenia» continua C. «Non sono mai riuscito a raggiungere il confine italiano a Trieste. Ho i miei cugini a Roma e voglio avere la possibilità di chiedere asilo in Italia».

La sua storia è molto simile a quella di altre 2500 persone, che secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), sono bloccate fuori dal sistema di accoglienza vicino alla città di Bihac, nel nord-ovest della Bosnia-Erzegovina, dopo essere state respinte dalla polizia croata. La situazione attuale è diventata ancora più esasperata dopo che il campo profughi della località di Lipa è andato a fuoco il 23 dicembre scorso. I migranti si sono riversati nelle vicine foreste dove hanno iniziato a costruire capanne di legno e di lamiera o in abitazioni di fortuna nell’area della cosiddetta “Factory”. Quest’ultima è un complesso industriale abbandonato e in gran parte pericolante dove le persone passano le giornate senza disporre di cibo, acqua potabile né riscaldamento con temperature esterne che possono raggiungere i -15 gradi. Molti di loro non hanno i vestiti e calzature adatti per affrontare le rigide temperature invernali.

Rifugio di fortuna alla Factory © Lorenzo Di Stasi

Secondo il Danish refugee council (Drc) tra il dicembre del 2019 e l’ottobre del 2020 sono stati respinti dalla Croazia verso la Bosnia 21.422 migranti. Il 60 per cento delle persone che hanno tentato di attraversare il confine ha ricevuto delle violenze. «La responsabilità è della Croazia ma anche di tutta l’Unione europea perché questa operazione di mantenimento forzato fuori dai confini è in realtà una scelta. Quello che si è visto negli ultimi 3 anni è legato ai respingimenti, la vera causa di questa crisi umanitaria» ha detto Gianfranco Schiavone, Presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà.

Il rapporto danese cita inoltre i 9 mila respingimenti della Slovenia. Ma c’è anche responsabilità dell’Italia. Da maggio 2020 il nostro Paese ha respinto circa 1300 persone senza alcun provvedimento formale verso i richiedenti asilo – questo non permette di fare ricorso. Per la prima volta, lo scorso venerdì 22 gennaio, il ministero degli Interni italiano è stato condannato per i respingimenti illegali da un’ordinanza del Tribunale di Roma, che ha accolto un ricorso di un richiedente asilo pachistano, respinto prima in Slovenia, poi in Croazia e quindi in Bosnia. Secondo il Tribunale romano, le riammissioni in Slovenia violano l’articolo 10 della Costituzione italiana, l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati che sancisce il divieto di respingimento e l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

«Ho studiato business in Afghanistan e facevo il traduttore dal Pashto (la lingua locale parlata nel Paese, ndr) all’Inglese e vorrei trovare lavoro in Italia. Sono quattro anni che sono arrivato in Europa e vivo ancora in condizioni disumane senza aver avuto lo status di rifugiato» racconta C. che si mette a disposizione per tradurre le storie di altre persone che vivono alla Factory. Tra gli altri, altre testimonianze raccontano di minacce della polizia di frontiera croata «se tornate vi colpiremo coi manganelli».

Factory 2_© Silvia Tonini

Fra i tanti giovani adulti e qualche minorenne c’è anche un uomo di 57 anni, Hanif, riconoscibile tra gli altri per un tipico turbante al capo che lo ripara mentre la neve cade fitta. Anch’egli ha lasciato la famiglia in Afghanistan e ha provato il cosiddetto “The game” – ovvero il tentativo di attraversare il confine e sperare di non essere respinti dalle polizie di frontiera europee. Vorrebbe arrivare in Francia, e racconta «Nel mio paese non c’è mai stata pace, prima l’invasione dell’Unione Sovietica, poi i Talebani e il conseguente arrivo degli USA, ora il terrorismo di ISIS. Ho già vissuto gran parte della mia vita, voglio solo dare una speranza a mia moglie e ai miei figli trovando un lavoro in Europa».

Dopo che il campo di Lipa è andato a fuoco, la solidarietà della società civile italiana non si è fatta attendere nonostante le difficoltà della pandemia da Covid-19. Solidarity Action è una rete internazionale di persone e realtà che intervengono in aree di crisi fondata da Claudio Locatelli, reporter esperto di aree di conflitto ed ex combattente YPG (le Unità di combattimento curde che liberarono Raqqa da ISIS). Locatelli spiega così l’inizio della missione d’intervento per la Bosnia: «Come si fa a girarsi dall’altra parte quando ci sono persone che rischiano l’assideramento o di morire di fame? Che si tratti di un terremoto, un’emergenza umanitaria o di persecuzioni c’è un nemico da combattere in modo proporzionale: tempo, soldi o quando necessario anche la propria vita», spiega di Locatelli.

«Il vero problema è che in Italia si pensa che la solidarietà debba essere silenziosa: nulla di più sbagliato, bisogna comunicare, sensibilizzare e coinvolgere per accendere il riflettore su un problema di tutti. In altre parole, dare l’esempio con il fare», conclude Locatelli. Così in un solo giorno, lo scorso 30 dicembre, è stato raccolto l’equivalente di 12 furgoni con beni materiali, la disponibilità di 40 volontari e donazioni da 600 persone.

La Commissione europea ha inviato più di 88 milioni di euro dal 2018 a oggi per la gestione dei migranti in Bosnia-Erzegovina, ma la situazione è tutt’altro che risolta. Per Amnesty International la responsabilità dell’Ue è chiara, poiché rafforzando i propri confini ha abbandonato migliaia di persone nei Paesi vicini. «L’Unione europea deve collaborare con la Bosnia ed Erzegovina nella ricerca di soluzioni sistemiche per venire incontro ai bisogni delle persone che si trovano sul suo territorio e assicurare che questa situazione non si ripeta il prossimo inverno», ha detto Eve Geddie, direttrice dell’ufficio di Amnesty International presso le istituzioni europee.

Ma anche la situazione medica alla Factory di Bihać è già critica ora. I rifugi sono sporchi, l’aria è satura di fuliggine e ciò causerà delle ripercussioni sull’apparato respiratorio delle persone. Vanessa Tabolli, studentessa all’ultimo anno di medicina all’Università di Trieste, che si è prestata come volontaria per valutare e diagnosticare i casi clinici alla Factory di Bihac ha evidenziato un focolaio di Scabbia «Molti dei profughi che vivono qui presentano le lesioni tipiche di questa parassitosi e un intenso prurito», racconta Vanessa. «In quel contesto è praticamente impossibile risolvere il focolaio: non è possibile lavare i vestiti né isolare gli affetti. La Scabbia si risolve solo con l’isolamento, la pulizia dei vestiti e antiparassitari. Per questo se queste persone non vengono ospedalizzate rischiano la morte», ha aggiunto Vanessa.

A fine giornata, la speranza sembra non morire negli occhi degli uomini della Factory. Alla domanda «Cosa vuoi fare una volta arrivato in Belgio?», Safi giovane afgano con la passione per la boxe e con un ottimo inglese risponde «I want to become a doctor like you».

 

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