Made in BolognaNon avrò altra lasagna all’infuori di te

Che la cucina sia un ottimo antistress, sia per chi sta ai fornelli che per chi siede a tavola, è un dato ormai assodato, soprattutto dopo gli ultimi mesi, ma negli USA pare abbiano scoperto che alcune preparazioni potrebbero essere più terapeutiche di altre e sul podio c’è la regina di tutte le domeniche italiane

Qualche giorno fa, su Grubstreet, il canale gastronomico del New York Magazine, è stato pubblicato un articolo che fa venire l’acquolina in bocca già solo dal titolo. The unstoppable appeal of lasagna, letteralmente «L’inarrestabile fascino delle lasagne», che gli americani si ostinano a chiamare al singolare e a pronunciare come se fossimo in Spagna o in Messico. Lasañia, anzi no, luh·zaa·nyuh, suggerisce Google, alla faccia di chi si sforza da decenni a posizionare la lingua correttamente con i vari the, mouth, with e compagnia cantante.

Ma torniamo a noi e all’articolo: gli autori Rob Patronite e Robin Raisfeld esordiscono raccontando che, secondo un’indagine dell’autorevolissima Harris Poll, il 68% degli americani si è sentito talmente stressato nelle settimane precedenti le elezioni presidenziali, da dover prendere seri provvedimenti per combattere l’ansia. C’è chi ha passeggiato, c’è chi c’ha dato dentro con le benzodiazepine, chi con la meditazione, c’è chi ha deciso di non guardare più i notiziari e disattivare momentaneamente i propri profili social. Infine, c’è chi – come Hillary Sterling, chef del parecchio quotato Vic’s, ristorante italiano nel cuore di NoHo, a New York – ha pensato di mettersi ai fornelli. Hillary Sterling, ha cucinato delle lasagne, le sue prime lasagne, un fatto piuttosto strano per lei, che già si era cimentata (con successo) nella produzione di pasta. Lo scorso 3 novembre, Hillary Sterling aveva bisogno di «distogliere la mia mente dalla possibilità di un secondo mandato Trump», dunque ha iniziato ad alternare besciamella, ragù, sfoglia fresca e i movimenti ripetitivi, il semplice gesto di spalmare il ragù sulla sfoglia, l’hanno tranquillizzata.

Non sapremo mai se è stato per onorare la vittoria di Joe Biden e Kamala Harris, ma da quel giorno le lasagne sono entrate in modo permanente nel menu di Vic’s, e forse – presumiamo – pure nelle strategie di Sterling per combattere lo stress. Scrivono Patronite e Raisfeld: «Il pregio delle lasagne è che, dopo aver esercitato il loro effetto terapeutico sul cuoco, lanciano un incantesimo altrettanto calmante sul consumatore». I due ribadiscono un’ovvietà, ma so’ americani, lasciamogliela ribadire: se il gioco si fa duro (leggi: se sei nel bel mezzo d’una pandemia globale) e fa un freddo cane (New York, certo, ma anche a Bologna d’inverno non si scherza), la gente non vuole altro che un piatto di lasagne.

«In generale, qualsiasi cosa con più strati – un club sandwich, una millefoglie, una pila di pancake – ha un netto vantaggio in termini di soddisfazione e piacevolezza visiva», continuano Patronite e Raisfeld. «Ma nell’arena del comfort food, le lasagne sono uniche. I panini e la pasta sono due dei più grandi cibi di conforto mai inventati, e le lasagne sono essenzialmente un panino con la pasta». Ora, provate a ripetere a un bolognese quest’ultima affermazione, e lui si sentirà in diritto – nonché moralmente in dovere – di mandarvi a caghér, ma il paragone azzardato serve per alzare una palla di tutto rispetto. Nonostante le origini “povere” delle lasagne (c’è molta più “nobiltà” e saccenteria in uno spaghettino al pomodoro arrotolato alla moda di Instagram), uno dei cavalli di battaglia della cucina bolognese sta entrando con prepotenza persino nelle cucine dei ristoranti più blasonati e fighetti degli Stati Uniti.

Il motivo è semplice, al limite dell’elementare: in un momento di gloria di asporto e delivery, le lasagne viaggiano non bene, benissimo. Si scaldano in poco tempo e possono essere vendute negli empori/botteghe/negozi che un gran numero di locali hanno improvvisato. Inoltre, l’iter per prepararle – ossia sbatterle in forno, calcolare una manciata di minuti, impiattarle – è a prova di imbranato. Gli americani insomma pare abbiano scoperto l’acqua calda, e noi regaz di Bolo li osserviamo dall’alto al basso, come si osserverebbe un figlio un po’ picchiatello nell’attesa (e nella speranza) che si scaltrisca un minimo. Chissà se conoscono le loro origini, quel laganum che nell’Antica Roma indicava delle sfoglie quadrate o rettangolari ricavate da un impasto di farina di grano, cotte al forno o sul fuoco e farcite con carne, antenate delle lasagne odierne.

Nel XIV secolo, un ricettario proveniente dalla Corte Angioina di Napoli, il Liber de coquina, proponeva una ricetta in cui per la prima volta compare il formaggio; l’introduzione del pomodoro avveniva invece nel 1881 – sempre a Napoli – documentata ne Il Principe dei Cuochi. Se la stratificazione è da attribuire a Francesco Zambrini, che ne parlava nel suo Il libro della cucina del sec. XIV del 1863, la codificazione del piatto si fa risalire ad alcuni ristoratori bolognesi, che all’inizio del Novecento sdoganarono per la prima volta le lasagne con la sfoglia verde, ottenute con l’aggiunta di spinaci all’impasto. È poi a Paolo Monelli che si deve la loro consacrazione, come lui stesso afferma nel suo Il ghiottone errante del 1935: «Ho letto libri sacri e profani, ho cercato in mille volumi certezze e consolazioni, ma nessun libro vale questo volume di lasagne verdi che ci mettono innanzi i salaci osti bolognesi».

Le lasagne a Bologna sono verdi, sono cunze (belle farcite, mica stitiche), sono – insieme ai tortellini in brodo – il comfort food per eccellenza, quello che «levatemi la teglia, altrimenti le finisco». Le lasagne a Bologna si mangiano la domenica, a pranzo, e le migliori – ennesima ovvietà in vista – sono quelle della mamma o della nonna. In alternativa, si può ripiegare su soluzioni ugualmente valide: il Ristorante Al Cambio dello chef Massimiliano Poggi, oggi gestito da Piero Pompili e la sua banda; la Trattoria Da Me (che offre anche un servizio d’asporto con ritiro in trattoria); il Ristorante Diana, culla della tradizione gastronomica bolognese; l’Osteria Bottega di Daniele Minarelli, la Trattoria Anna Maria, dove l’ottantenne proprietaria dal 1985 si prende cura di vip, celeb e dei musicisti del Teatro Comunale. Poi, da quasi novant’anni c’è l’antica salsamenteria Tamburini di via Capraie, che in questi lunghi mesi di asporto e delivery è stata una vera manna per chiunque: sì, esatto, da novant’anni. Sotto le due torri, insomma, con le luh·zaa·nyuh non si scherza per niente: «panino con la pasta», tsè, andatelo pure a dire a qualcun altro.

Foto di Osteria Bottega

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