Mi raccomandoObbligo o persuasione? Ecco tutti gli aspetti giuridici a cui si intreccia il dibattito sul vaccino

L’equlibrio tra l’interesse della collettività e il diritto alla salute personale, che paradossalmente include quello di non curarsi, è delicato. E poi ci sono l’articolo 32 della Costituzione, la privacy e l’Ue. Ma soprattutto: si può imporre per legge un trattamento quando non è neppure disponibile?

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Durante la conferenza stampa di fine anno, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha dichiarato di escludere la vaccinazione obbligatoria contro il Covid-19: «Lasciamo che parta la campagna vaccinale. Vediamo il riscontro che ci sarà. Confidiamo di poter raggiungere una buona percentuale di popolazione anche su base facoltativa». L’affermazione di Conte, al di là della sua reale volontà – sostenuta da una forse innocente speranza – è vincolata da precise condizioni che al momento rendono illegittimo l’obbligo vaccinale contro il coronavirus in Italia.

Il diritto alla salute è sancito dalla nostra Costituzione all’articolo 32: ognuno è libero di sottoporsi a un trattamento sanitario e quindi anche di rifiutarlo. Al contempo la salute è anche interesse della collettività: un obbligo vaccinale può assumere un carattere perentorio proprio in vista della tutela sociale.

È lo stesso articolo 32 della Costituzione a porre dei paletti (o, per meglio dire, delle garanzie) quando la sfera del singolo viene limitata in ragione della garanzia della salute pubblica. Innanzitutto, è prevista la riserva di legge. Un obbligo vaccinale può esser imposto solo ed esclusivamente con una norma. Questa dev’essere dello Stato, dal momento che la vaccinazione rientra nella materia di competenza esclusiva statale (sempre ai sensi della Costituzione), e perché, per combattere un’epidemia, è necessaria un’omogeneità di trattamento su tutto il territorio nazionale. Non basta quindi un decreto del presidente del Consiglio dei ministri, in quanto si tratta di un atto amministrativo, né basta una legge regionale, come è stato ribadito dal Tar del Lazio, a fronte di una decisione del presidente della Regione, Luca Zingaretti, sull’obbligo, in quel caso del vaccino antinfluenzale, per gli operatori sanitari.

Un altro limite imposto dalla Costituzione riguarda la dignità della persona umana, che non deve esser lesa per alcuna ragione. Pertanto non sono ammessi trattamenti per fini di eugenetica o sperimentali. Altri elementi si trovano in alcune sentenze della Corte Costituzionale – che da qualche decennio si occupa di obbligo vaccinale – dove l’equilibrio tra sfera privata e pubblica è centrale: l’obbligo del vaccino può infatti essere imposto se porta allo stesso tempo benefici sia al singolo sia all’intera collettività. Dimensione individuale e pubblica devono quindi procedere parallelamente. Inoltre il vaccino, secondo la Consulta, non deve recare danni al singolo e dev’essere predisposto un indennizzo nel caso in cui sopraggiungano conseguenze cliniche che non possono esser risolte con un intervento medico.

Inoltre il legislatore (e non il presidente del Consiglio) deve chiedersi se l’obbligo vaccinale può esser esigibile. E quindi, quando è imposto, l’obbligo deve accompagnarsi alla certezza che ci siano dosi e vaccinatori per tutti. Prima di tutto, è dunque necessario mettere in campo un’organizzazione tale da consentire l’erogazione a quanti ne abbiano corrispondente diritto. In altri termini, se oggi il Parlamento emanasse una legge che impone l’obbligo vaccinale contro il coronavirus, si tratterebbe di una disposizione priva di fondamento, semplicemente perché non possediamo dosi di vaccino per tutti.

Inoltre in Italia non esiste – almeno per ora – un chiaro piano vaccinale, a causa di imprevisti esterni (come ad esempio i ritardi registrati dalle aziende farmaceutiche) e interni. Solo poche settimane fa il commissario Domenico Arcuri ha confessato a ZetaLuiss, la testata online della scuola di giornalismo “Massimo Baldini” di Roma, di non disporre di un elenco dei centri vaccinali.

L’obbligo, inoltre, deve essere finalizzato a determinati obiettivi, come il raggiungimento dell’immunità di gregge, e sostenuto da certezze scientifiche. «Al momento non sappiamo con sicurezza quanto duri l’immunità che ci dà il vaccino, si presume almeno per alcuni mesi», risponde Paolo Bonanni, igienista e consulente dell’Ecdc (European centre for disease prevention and control). «Non sappiamo nemmeno se l’immunità data dal vaccino consenta la non trasmissione del virus a terzi».

Quando si stanno raccogliendo dati e non si hanno precise risposte, lo Stato anziché l’obbligo, può usare lo strumento della raccomandazione. «Una campagna di sensibilizzazione è quel che è auspicabile», commenta Vitalba Azzollini, giurista e autrice di paper per l’Istituto Bruno Leoni. «Tuttavia bisogna far attenzione a non ottenere l’effetto contrario: se la persuasione fosse tale da convincere una gran quantità di persone e lo Stato non riuscisse a garantire le dosi per tutti, si verrebbe a creare un autogol, esattamente come se si imponesse l’obbligo vaccinale». In sostanza, i cittadini non avrebbero la possibilità di ottenere ciò che lo Stato ha raccomandato loro di fare. Per questo la Consulta nella sentenza n.5/2018 si è espressa dicendo che l’obbligo e la raccomandazione due strumenti consentiti, al di là dei limiti normativi di cui sopra, ma da trattare con cautela.

Se è legittimo imporre all’intera popolazione l’obbligo vaccinale, a maggior ragione la norma può essere limitata a determinate categorie di persone e lavoratori. Agli operatori sanitari la disposizione sarebbe suggerita da una duplice ragione, oltre che da due finalità concorrenti: da un lato la necessità di tutelare la categoria in questione, in quanto esposta all’agente patogeno che causa la malattia (Testo unico salute e sicurezza, d.lgs. 81/2008), dall’altro perché operano in settori in cui bisogna assicurare la salubrità dell’ambiente.

Il datore di lavoro, nell’ambito del rapporto privatistico con l’operatore sanitario, potrebbe pretendere, già fin da oggi, la vaccinazione del dipendente in quanto esposto al virus, ad esempio perché lavora in un reparto Covid o in un laboratorio dove si esaminano tamponi di rilevazione. Allo stesso modo non potrebbe esigere la vaccinazione da operatori di reparti – come ortopedia o oculistica – che non presentano lo stesso rischio di contrarre il virus.

Più complesso è il discorso legato all’eventuale decisione di compagnie aeree di imporre un patentino vaccinale per viaggiare. Si tratterebbe di una misura a metà tra l’obbligo e la raccomandazione: un incentivo che lega l’obbligo vaccinale alla possibilità di fruire, per chi si è vaccinato, di determinati servizi. Il rifiuto di una vaccinazione non può, in ogni caso, comportare la limitazione di diritti fondamentali come il diritto alle cure o il diritto all’istruzione. Quest’ultimo è stato rivendicato durante il dibattito sull’obbligo vaccinale in occasione della conversione in legge del decreto vaccini dell’allora ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. In particolare nella sentenza n.5/2018 della Corte costituzionale si era ribadito che non esiste un diritto tiranno e quindi la tutela della salute non può reputarsi prevalente su altri diritti fondamentali.

La stessa presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ritiene che imporre il patentino vaccinale per spostarsi da un Paese all’altro, all’interno dell’Unione europea, sia una scelta senza fondamento. Nelle avvertenze l’Aifa (Azienda italiana del farmaco) afferma che non è certo che il vaccinato non trasmetta il virus a terzi. Pertanto considerare il patentino vaccinale un lasciapassare o un certificato di libertà di spostamento, al netto delle acquisizioni scientifiche che disponiamo, è privo di senso. Nondimeno, dal momento che i piani vaccinali cambiano da Stato a Stato potrebbe rilevarsi una misura discriminatoria nei confronti di una qualche categoria che in un determinato Paese è stata vaccinata prima e in un altro non ancora, creando disparità non ammissibili.

In Italia, per lo stesso motivo, precludere certi luoghi ai non vaccinati, senza alcuna certezza sulla non trasmissibilità del virus, rappresenta una misura irragionevole e, in ogni caso, serve una legge, prima della quale il legislatore soppesi tutti gli interessi coinvolti. Ad esempio i pubblici esercizi non possono limitare l’accesso nei loro locali, salvo che ricorra un motivo legittimo. E la mancata vaccinazione contro il Covid-19 non lo è.
C’è inoltre un altro profilo da considerare: l’esercente che chiede al cliente se è stato o meno vaccinato verrebbe in possesso di un dato sanitario e sensibile, ai sensi del regolamento europeo sulla protezione dei dati. Il regolamento della privacy (GDPR) prevede che il consenso del trattamento di questo tipo di dati debba esser libero e non condizionato.

Fino a qualche decennio fa lo Stato, per convincere i cittadini a vaccinarsi, regalava i biglietti del cinema. Oggi, allo stesso modo, l’Italia potrebbe ricorrere ad analoghi incentivi di natura economica. Tuttavia, secondo la giurista Vitalba Azzollini, «l’assolvimento della vaccinazione deve rispondere a dei convincimenti individuali che non possono esser soppiantati da un incentivo monetario». Bisogna poi tener conto che qualsiasi spinta di carattere economico alla vaccinazione potrebbe esser percepita con sospetto, come una sorta di tentativo di compravendita del bene salute. «Direttamente o indirettamente», sottolinea la giurista, «si va a incentivare una prestazione che, a mio parere, dev’esser libera e fondata su un senso di responsabilità individuale».

Meglio quindi lasciare al singolo libera scelta e far leva sul dovere di solidarietà e sulla necessità di tutelare se stessi e la collettività nella quale si è inseriti. Come, d’altronde, lo stesso articolo 32 della nostra Costituzione ci ricorda di fare