Reinventare il sogno e il businessAfter market e Generazione Z, la moda si è messa in ascolto e non è più la stessa

Designer e aziende del lusso stanno cambiando radicalmente modalità di vendita per andare incontro alle esigenze degli under quaranta e a quelle di una società profondamente mutata dalla pandemia. Gli investimenti sul resale, l’estetica bucolica Cottagecore e altre tendenze che andrebbero insegnate nelle scuole dove studiano i protagonisti del futuro

duy-hoang, Unsplash

Da quando il virus ha scardinato da monte a valle l’intera filiera produttiva della moda, i Ceo più avvertiti e i designer più talentuosi hanno operato una rotazione a 180 gradi delle loro strategie. Si sono innanzitutto messi in ascolto di ciò che sta accadendo tra la fascia demografica degli under 40: Millennial e GenZ, che a partire del 2025 costituiranno oltre il 52 per cento dei consumatori nel mondo. I più numerosi e ottimisti dislocati in Asia, seguiti da quelli che vivono negli Stati Uniti, poi a lunga distanza – tanto per ottimismo che per numero – quelli europei.

Una tendenza recentemente emersa in questo gruppo, è stata battezzata “Cottagecore”, l’estetica di una vita bucolica. Le sue ragioni vanno ricercate in quel che è successo a partire dal marzo 2020. Se indossare la stessa felpa tutto il giorno con il sandalo Birkenstock e il calzino di ordinanza è stato per molti l’apice della moda da quarantena, il Cottagecore ha dalla sua anche il feeling eco-chic che è tipico delle confraternite createsi online. Nato tra gli adolescenti o poco più che ventenni, è poi divenuto una proposta pervasiva ovunque: nelle boutique del lusso, negli store del fast fashion, ma soprattutto nelle piattaforme e-commerce specializzate nell’after market. 

Nell’universo incantato del Cottagecore (togliete alla moda un sogno e la moda non esiste più) non ci sono cellulari che suonano continuamente, non c’è WhatsApp, né compaiono email di lavoro inviate da un capo tirannico. Il Cottagecore tenta di alleviare il burnout opponendogli un languido godimento di compiti banali come occuparsi di un piccolo orto o far crescere i semi piantati nei vasi sul davanzale di casa. Chi non ha sognato di abbandonare le città a favore della campagna durante questa pandemia? 

Eppure è attraverso la tecnologia che si è diffuso. Cottagecore ha proprie community su Tik Tok, Instagram e Tumblr con account dedicati alla sua estetica casalinga e utenti che sfoggiano scatti dei loro giardini. Il suo hashtag rivela un diluvio di increspature, volant, stratificazioni, punto smock e ricami.

E poi c’è il lavoro all’uncinetto. Tra marzo e luglio 2020, la ricerche online a questo proposito sono aumentate di quasi il 500 per cento. Un coloratissimo cardigan patchwork da 1.250 sterline di JW Anderson (che disegna oltre alla sua etichetta anche il marchio Loewe) ha catturato l’immaginazione dei fruitori di TikTok (41 per cento di età compresa tra 16 e 24 anni) noto per ospitare sfide ispirate ad hashtag come #PoseChallenge e #ChaChaWorkout. Gli utenti hanno iniziato a ricreare l’indumento in maglia color arcobaleno di Anderson che era stato indossato dal cantante Harry Styles (con i One Direction, 50 milioni di copie vendute) durante una prova per la sua performance in un programma televisivo della NBC lo scorso febbraio. #HarryStylesCardigan da allora ha accumulato oltre 330.000 visualizzazioni. 

Un fenomeno destinato a esaurirsi in poco tempo nell’oceano del web? L’accadimento può essere stato fugace, ma il feeling per questo tipo di “artigianato” ha continuato a crescere. Siamo stati in tuta tra le mura di casa per mesi? Al boom dello streetwear si è affiancato quello dell’homewear. 

Manca la socialità, mancano magari i soldi? Le offerte non mancano mai. Per esempio il kit per farsi in casa un tie-dye personale. A questo riguardo va notato che il mood degli under 40 premia tanto l’individualità che la preoccupazione per la crisi ambientale in corso: è quanto emerge dall’ultima ricerca al riguardo di McKinsey.

Se fare i vestiti da sé poteva apparire appannaggio di una di nicchia numericamente insignificante sino a poco tempo fa, su YouTube e TikTok i tutorial hanno poi cominciato a proliferare. Ad oggi l’hashtag #tiedye è stato visto milioni di volte su TikTok e su l’e-tailer Depop ci sono più di 57mila articoli #tiedye. 

La moda istituzionale (chiamo così tanto quella legata ai grandi marchi del lusso che del fast fashion) non è rimasta a guardare. Durante l’ultima tornata di sfilate (iniziata a New York lo scorso 12 febbraio e conclusasi a Parigi il 14 marzo) è emersa con chiarezza una nuova sensibilità tra i designer più giovani e talentuosi. Marine Serre (francese, anni 29) ha dato vita a una collezione soprannominata Core e l’ha presentata con un sito web dove appare la cronaca di tutto ciò che riguarda il suo lavoro e la sua vita personale: compresi amici, parenti e bambini. Un wormhole virtuale integrato in ciascuna delle scene permette di entrare nella storia del capo lì indossato, dove appaiono gli atelier di produzione con il team del marchio intento a dare nuova vita a capi confezionati con tessuti di riciclo.

L’americana Gabriela Hearst a New York ha presentato la linea che porta il suo nome, dallo scorso anno balzata alla ribalta per la sua netta inclinazione ambientale. A Parigi, da questa stagione, è stata chiamata a disegnare il marchio Chloé che non è una qualsiasi start up, appartiene al super gruppo del lusso Richemont (tra gli altri Cartier, Van Cleef & Arpels, Alaïa…): una scelta del genere da parte di una finanziaria come questa è molto più di un semplice segnale.

Una nuova e più ampia coscienza green, l’accelerazione verso l’online, lo stravolgimento di molte delle consuetudini a causa della pandemia: insieme costituiscono una combinazione di forze che stanno spingendo la moda e il modo in cui pensiamo ai vestiti in una nuova direzione. 

Anche per questo il “resale”, “second hand” o “after market” (come lo si voglia definire) ha rapidamente raggiunto uno sviluppo sufficiente per concentrare i marchi del lusso sulla ricerca di nuove modalità, per “costringerli” a lavorarci attraverso collaborazioni, investimenti in player specializzati o iniziative dirette. 

Di recente è anche nato un magazine dedicato, Display Copy, che ha debuttato online e in edicola il 22 ottobre scorso. A prima vista è una rivista di moda come altre, in realtà è senza precedenti perché in Display Copy non si trova un solo outfit “nuovo”: ogni capo è vintage e ha un prezzo accessibile. Sul sito, alla voce “shop”, appaiono le indicazioni su dove acquistare: includono luoghi fisici come l’Esercito della Salvezza o piattaforme e-commerce come Etsy o eBay. Display Copy è apparso con un tempismo perfetto. Se già da tempo GenZ e Millennial non si fanno scrupolo ad acquistare l’usato è facile prevedere che la tendenza sfonderà pure tra Gen X e persino tra i Boomer più sofisticati.

Un esempio che esemplifica bene quanto questo “usato” sia lontano dal “poverismo” degli anni 70 è la recente iniziativa dell’azienda di orologi di lusso Richard Mille. Qui – dove l’entry price per un pezzo è di 70 mila euro sono apparse tre boutique dedicate esclusivamente ad orologi di seconda mano. A Tokyo, a Singapore e nell’esclusiva Mayfair di Londra. Altri marchi stanno invece lavorando con siti web specializzati nell’after market: Gucci come Burberry e Stella McCartney con The RealReal. Balenciaga, Versace, Chloe e Alexander McQueen sono presenti su Goat.

L’after market di abbigliamento, calzature e accessori rappresenta attualmente una cifra globale valutabile intorno ai 40 miliardi di dollari, ma è previsto che crescerà al ritmo del 20 per cento nei prossimi cinque anni. La sua crescita online ha già raggiunto il 69 per cento tra il 2019 e i primi due mesi del 2021. E così l’attenzione della finanza si è accesa anche sull’inglese Depop, la francese Vestiaire Collective o le californiane Thredup e Poshmark.

StockX, che ha sede a Detroit, ha raccolto investimenti per 275 milioni di dollari nel dicembre del 2020, Goat ha ricevuto un investimento dal Groupe Artémis (azionista di controllo di Kering) a gennaio del 2021, mentre sempre a gennaio, al suo primo giorno di negoziazione a Wall Street, Poshmark ha chiuso ad oltre il 140 per cento rispetto al prezzo di quotazione, a 7,5 miliardi di dollari. L’investimento, che valuta Vestiaire Collective oltre 1 miliardo di euro, comprende anche la società statunitense Tiger Global Management che si è affiancata agli azionisti già esistenti, tra cui l’editore Condé Nast, il fondo di private equity Eurazeom e la francese Bpifrance. Vestiaire Collective è la prima piattaforma europea specializzata in questo genere di rivendita, ma l’investimento in questo caso è visto soprattutto come un esperimento per migliorare la comprensione delle dinamiche della rivendita del lusso di seconda mano, in particolare per quanto riguarda il comportamento di Millennial e consumatori Gen Z, esperti di digitale e attenti all’ambiente. Per questo Kering (oltre a Gucci, Saint Laurent, Balenciaga, Bottega Veneta…) ha scelto questo e-tailer per una partnership che fornisce un acceso privilegiato ai suoi marchi.

Di certo siamo innanzi al cambiamento più radicale occorso al fashion da molti anni a questa parte. Lavorare con cose già esistenti senza buttare sempre tutto, reinventarle, utilizzando tecnologia e design, apre nuovi orizzonti intellettuali ed estetici. È questo che dovrebbe essere preso seriamente considerazione nelle scuole dove si insegna moda a coloro che dovrebbero diventare i protagonisti del futuro.

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