Eater è implacabile fin dall’attacco dell’articolo: “L’immagine del critico di ristoranti tradizionale – un uomo bianco anziano, dall’aspetto surrettizio ma dall’appetito significativo, che emette giudizi snob da dietro un tovagliolo bianco – era obsoleta molto prima che la pandemia colpisse”.
E in effetti, come dar torto al magazine? Eppure, da sempre è questa la perfetta descrizione del critico gastronomico che conta e dei cui giudizi gli chef sono terrorizzati. Non certo di influencer e blogger vari/e che costellano l’affollato mondo della scrittura del cibo.
Perché quelli che pesano sono i giudizi di uno sparuto gruppo di eletti, che dall’alto dei loro brand editoriali sono in grado di decidere le sorti (e soprattutto gli incassi!) di tante insegne oggi più che mai desiderose di fama e di clienti.
La riflessione del magazine americano ha alcuni punti saldi che ci sentiamo di sottoscrivere.
La critica è sempre meno critica, a parte rari casi: tipo la Michelin Francia, che toglie stelle anche nell’anno orribile e si dimostra implacabile persino in pandemia. In generale, si racconta di più e si critica di meno. Puoi forse sparare sulla Croce Rossa? Solo se sei al di sopra di ogni sospetto. Nel caso specifico, la Michelin forse non lo era.
Anche le aziende editoriali solide lo sono sempre meno: e quindi taglio al budget, taglio alle diarie e alle trasferte e taglio alle spese per i ristoranti. Ma soprattutto, taglio dei collaboratori, che quindi smettono di andar per ristoranti, non avendo più un posto dove raccontarli. Ergo, criticare qualcosa per cui non si è pagato, o dove per forza maggiore non si è mangiato, è diventato sempre più complicato.
Più voci, e sempre diverse, si stanno affacciando a questa professione: e hanno punti di vista diversi, e stili differenti di racconto. La varietà può aiutare a migliorare il settore e a farlo crescere, ma l’impreparazione è dietro l’angolo.
Più recensioni locali: molti critici non si sono potuti muovere e il loro raggio d’azione è diventato sempre più breve. Non per forza questo è un danno, anzi. Mappare bene il territorio dà modo di sviluppare conoscenza e business delle attività locali, che in un mondo globalizzato non trovavano quasi mai un posto al sole.
Non considerarsi (solo) un arbitro del gusto: questa è una speranza, più che una tendenza del periodo. Ma lo sottolinea anche Tejal Rao, critico di ristoranti del New York Times: «I critici dovrebbero considerare tutte le questioni cruciali del momento contingente, come il lavoro, le disuguaglianze, l’esclusione – tutte le dinamiche che non vediamo e che però sono in grado di modificare la nostra società, i nostri ristoranti e tutti gli spazi in cui ci muoviamo. Questa visione deve essere parte del nostro lavoro, anche se non la raccontiamo in ogni singola storia. Ma è questo il principio che deve guidare la nostra professione».
Perché attraverso la lente del cibo si può arrivare a catturare l’attenzione del lettore, e portarlo verso temi di valore universale. Prosegue Rao: «Gran parte di ciò che è stato messo in luce lo scorso anno non era nuovo, esiste da molto tempo e non sembra risolversi: l’ingiustizia razziale, i costi fisici per i lavoratori, le disuguaglianze che corrono lungo tutta la filiera della ristorazione, i costi ambientali. Il nostro sistema alimentare è così distrutto e così disfunzionale e le persone ne soffrono. E penso che la critica possa svolgere molti ruoli, incluso continuare a far luce su questi temi».