Verso la fine dello scorso febbraio la corte suprema britannica ha respinto l’appello presentato da Uber relativa a una sentenza del 2016 emessa da un tribunale del lavoro e sfavorevole all’azienda. In quell’occasione si stabiliva che per quanto riguarda il Regno Unito, gli autisti della app californiana sono a tutti gli effetti dei dipendenti con diritto al salario minimo e alle ferie pagate.
Dunque, per quanto Uber si sia sempre adoperata e tutt’ora si adoperi a sostenere che il lavoro degli autisti sia del tipo autonomo quindi non soggetto al trattamento tipico riservato ai dipendenti, come d’altronde fanno anche molte altre aziende di consegne e non solo di trasporti, l’unanimità dei giudici della corte suprema invece pensa che lo siano a tutti gli effetti dato che l’azienda esercita un livello importante di controllo sul loro lavoro poiché ne stabilisce i percorsi e non comunica la destinazione del passeggero fintanto che questi non sia salito a bordo.
Nel nostro Paese, lo stato dell’arte vede un recente pronunciamento della Procura di Milano secondo il quale oltre 60 mila lavoratori delle società di delivery (Uber Eats, Glovo, JustEat, Deliveroo) in tutta Italia dovranno essere assunti come lavoratori coordinati e continuativi, cioè da autonomi e occasionali che erano considerati sino ad ora passano a parasubordinati. L’accento, nel racconto di questo primo traguardo, è stato posto sul passaggio dalla condizione di schiavitù a quella di cittadini che in questo periodo di lockdown svolgono una funzione fondamentale poiché non solo consegnano a casa dei cittadini cibo e beni di prima necessità ma hanno permesso e permettono a molte imprese di non chiudere.
Dunque, se in Italia e nel vicino Regno Unito la scelta di ritenere inapplicabile e illegittimo qualsivoglia tentativo di bypassare le tutele più elementari del lavoratore attraverso arbitrari e ingegnosi punti di vista contrattualistici, è stata fatta. La stessa cosa purtroppo non avviene nel resto del mercato globale dove molte delle aziende più ricche del mondo continuano a basarsi sul costante aumento del numero di questi lavoratori soggiogati dalle condizioni di precariato fatte di miserevoli guadagni, assenza di diritti e vessazioni.
In Cina, per esempio, continuano a guadagnare l’equivalente di un dollaro a consegna lavorando in totale assenza di assistenza sanitaria e previdenziale. Eppure, durante la prima ondata della pandemia furono considerati più che altrove dei veri e propri eroi per l’essenzialità del ruolo sociale prima ancora che professionale svolto per la popolazione costretta a casa durante i lockdown. Oggi, questi eroi di un tempo non così tanto lontano, si trovano a fare i conti con un’ondata di suicidi perpetrati in nome di diritti che definire di base corrisponde già a elevarli nella scala del valore, ma che per loro invece sono ancora territorio di una conquista non scontata.
In un paese che ha superato il miliardo di utenti online e che si trova sicuramente nella posizione più avanguardistica per le tecnologie digitali, con aziende gigantesche come Alibaba, Baidu, Tencent che hanno creato e accrescono patrimoni di portata simile a quelli dei più noti Bill Gates e Jeff Bezos, il costo sociale è sulle spalle di questo proletariato stretto in dinamiche di sfruttamento alle quali sembra difficile sfuggire se non attraverso la visibilità che per una manciata di minuti può fornire il più estremo tra i gesti.
Riconoscere ai rider un trattamento di lavoro che non neghi loro il futuro e una prospettiva di crescita, è un tema sensibile soprattutto in ambiti in cui questi sono definiti da sistemi informatici che ovviamente sono più implacabili di qualsiasi scelta umana. Chi venga guidato, sorvegliato, valutato attraverso l’intelligenza artificiale che si fonda su una pressione continua sul lavoratore, il quale non può sottrarsi per evitare di essere retrocesso o addirittura espulso dal sistema e quindi di non poter più lavorare, di certo non può che definirsi in maniera diversa da schiavo, in quanto non ha alcuna possibilità di determinare il proprio agire e di incidere sulla crescita del proprio lavoro e dei propri profitti.
L’errore (o forse meglio dire orrore?) sul quale questa dinamica si basa è quella della cosiddetta autonomia dei rider che in realtà si riduce alla scelta delle fasce orarie nelle quali prestare la propria opera. Ma questa scelta è condizionata in maniera più o meno ampia dal ranking, attribuito automaticamente dall’algoritmo e collegato alle performance – puntualità, velocità, accettazione degli ordini, ecc. Per esempio, non lavorare in alcuni giorni e in alcune fasce orarie, normalmente comporta una retrocessione e quindi a sempre minori opportunità di lavoro.
Chi, dipendendo da queste precondizioni lavorative e avendo necessità di quel guadagno per la propria sussistenza e per quella dei propri cari, rinuncerebbe a lavorare anche in casi limite? Può, per esempio, un infortunio fermarlo se fermarsi significa perdere il lavoro e quindi anche quel minimo salario? Per quanto lo possa sembrare, purtroppo questa non è una domanda retorica. Così come non lo è quella direttamente susseguente: può una azienda esimersi dal verificare lo stato di salute del proprio lavoratore in ordine alle mansioni alle quali è adibito?
Nell’epoca in cui alle aziende viene sempre più accordato un capitale enorme in termini di fiducia collettiva che gli riconosce il ruolo di bussola verso una società più equa e inclusiva oltre che sostenibile, queste non possono più permettersi di normalizzare un sistema che nuoce alla società rifuggendo la sfida che è contemporaneamente una enorme occasione, di mettere la tecnologia al servizio del benessere di tutti e dell’insieme e non di farcene restare, invece, schiavi.