Per valutare le scelte politiche, bisogna che abbiano perlomeno un obiettivo dichiarato. Quale sia l’obiettivo delle politiche di contrasto al Covid è sempre più difficile da capire. Appiattire la curva riducendo la pressione sul servizio sanitario nazionale? Zero Covid? Il raggiungimento dell’immunità di gregge con vaccinazioni complete? Abbattere o almeno prevenire i casi clinici più gravi immunizzando parzialmente?
Da un anno ascoltiamo i politici dire che si deve ascoltare la scienza, ma quando il lessico della scienza entra nell’agone dell’opinione pubblica, ogni tanto porta non chiarezza ma confusione. Sappiamo che l’immunità acquisita naturalmente attraverso la guarigione dall’infezione o artificialmente via vaccinazione (o anticorpi trasferiti passivamente) è per definizione una condizione fisiologica individuale.
Diventa immunità cosiddetta di gregge o comunità quando una percentuale di popolazione tipica per ogni patogeno si è immunizzata. L’immunità collettiva è un’astrazione, o comunque un fenomeno che accade empiricamente per fatti statistici. Non è una vera immunità, in primo luogo, perché nel gregge ci sono veri immuni e persone che sono solo indirettamente protette.
Quindi è una condizione provvisoria (banalmente: i neonati non erediteranno l’immunità dei genitori) la quale richiede un costante monitoraggio e azioni specifiche, se si vuole che la percentuale dei veri protetti dal virus continui a essere sufficiente per un effetto di soglia a rendere praticamente immune tutta la comunità.
Nel dibattito di questi mesi, l’immunità collettiva ha assunto tutt’altra dimensione. Il concetto si è staccato dalle pagine dei libri e si è fatto mito. Per rinfrancare milioni di persone sfiancate da un anno di restrizioni pandemiche, è stata immaginata una specie di boa che un bel giorno ogni Paese riuscirà a girare. Una soglia miracolosa, oltrepassata la quale come per magia Covid-19 scomparirà.
Nella realtà sarà un processo lento e le transizioni locali saranno fluttuanti e probabilmente non dipendenti da un’unica soglia in tutte le comunità, stante che diverse varianti evolveranno diversi tassi di riproduzione del virus.
Inoltre, le cose saranno influenzate dalla scelta di ritardare o meno la dose di richiamo. Soprattutto l’eterogeneità del mondo reale richiederà appunto attente sorveglianze, perché, all’aumentare del numero dei vaccinati, cambieranno anche i comportamenti delle persone e il virus continuerà a evolvere. Le cosiddette varianti non smetteranno di emergere ancora del diversi anni per cui sarà una lotta senza quartiere per impedire che accada quello che è nella natura delle cose, appunto l’evoluzione del virus.
Dagli anni Settanta si sa che l’idea che ci sia una soglia sperimentalmente testata al di sotto della quale un patogeno non può scatenare un’epidemia, e che tale soglia dipenda solo dal tasso di riproduzione del patogeno, è semplicistica.
Tuttavia, le idee semplici si scollano a fatica dalla testa delle persone e così è stato anche per l’idea che l’immunità si diffondesse a caso, naturalmente o mediante vaccinazione, in una popolazione a sua volta mescolata a caso, in modo tale che dato il tasso tipico del patogeno, l’incidenza dell’infezione deve declinare al crescere della proporzione nella popolazione delle persone che diventano immuni.
Certo, non mancano impressionanti esempi che le campagne di vaccinazione producono una protezione indiretta che ha un significativo impatto sanitario. Periodiche epidemie di polio, morbillo, parotite, rosolia, pertosse, sono state stroncate mantenendo gli individui suscettibili sotto una determinata soglia. Le vaccinazioni dei bambini nelle scuole contro l’influenza in Giappone proteggevano gli anziani e la vaccinazione dei maschi contro Hpv proteggeva le femmine.
Ma non è automatico che in assenza della copertura vaccinale teoricamente necessaria, si scateni una epidemia, come dimostra il fatto che in diversi Paesi dove i No Vax o gli esitanti scelgono di non vaccinare i figli contro il morbillo o la parotite e la percentuale di immuni scende anche notevolmente sotto la soglia di pericolo, non esplodono regolarmente infezioni.
Bisognerebbe guardarsi dall’adottare una visione meccanicista. Si evitano illusioni e delusioni. Una analisi teorica del concetto di immunità di comunità, mostra che in alcuni casi l’immunità può essere imperfetta per cui la soglia di popolazione da immunizzare aumenta.
Inoltre, le popolazioni umane non socializzano a caso. Le persone si organizzano in gruppi e all’interno dei gruppi cambiano le frequenze di contatti, i comportamenti di rischio e anche gli atteggiamenti verso le vaccinazioni: non esiste la persona infetta o suscettibile tipica.
Le vaccinazioni non sono nemmeno fatte a caso, come stiamo vedendo. È possibile che se i segmenti di popolazione in fase di vaccinazione sono oltre che quelli che più si ammalano anche quelli che più trasmettono, allora si potrebbe arrivare presto a spegnere la pandemia.
Ma noi abbiamo fatto, spinti dalla scarsità dei vaccini e da una valutazione politica (dare priorità alla riduzione dell’indicatore più inquietante, il tasso di mortalità), una scelta chiara, privilegiando la difesa dei più fragili. In qualche modo, si suppone che a trasmettere di più siano quelli che si ammalano meno, o comunque in forma meno grave. Ma costoro saranno gli ultimi a essere vaccinati, e pertanto si andrà per le lunghe.
Bisogna evitare che la speranza magica nel raggiungimento dell’immunità finisca per portarci a semplificazioni radicali, e radicalmente sbagliate. La normale eterogeneità della popolazione milita a vantaggio di una strategia di contrasto colpo-su-colpo, nella quale le restrizioni sono quanto più possibile localizzate, granulari.
L’immunità di gregge, per un Paese di 60 milioni di abitanti, può rivelarsi un obiettivo sfuggente: ha senso immaginare restrizioni generalizzate, come ipotizzano alcuni governatori ansiosi di liberarsi dall’impopolarità di essere loro il fulcro della strategia anti-pandemica? Per quanto tempo? Con quali costi sociali?
Parimenti, proprio in popolazioni così ampie e complesse non si può pensare di fare assegnamento solo sull’immunizzazione artificiale. Avere privilegiato i più fragili significa, implicitamente, avere deciso che una certa quota di circolazione del virus, che ha per esito una maggiore immunità naturale in certe fasce della popolazione, è coerente con una buona gestione del Sistema sanitario nazionale e persino auspicabile. Se fosse così, sarebbe bene provare a spiegarlo, senza continuare in questa strana alternanza fra l’uso politico della magia (il miraggio dell’immunità collettiva) e l’uso politico della paura (la minaccia del lockdown).