Dalla Corea del Sud con amoreLasciate qualsiasi cosa stiate facendo e correte a vedere “Minari”

La pellicola di Lee Isaac Chung, miglior film straniero ai Golden Globe 2021, è la storia di cui abbiamo bisogno in questo momento, e ruota tutta attorno al cibo

Chi l’ha visto prima dei Golden Globe – la cui disastrosa cerimonia su Zoom ha avuto (non) luogo stanotte – sapeva che non ci sarebbe stata gara. Puntavamo tutti su “Un altro giro”, l’ultima fatica (amaramente) divertente e disillusa di Thomas Vinterberg, finché non è arrivato lui, “Minari”, a sconvolgere le carte in tavola e a ribaltare pronostici che parevano certi fino a non troppi giorni fa.

Il nuovo, meraviglioso film di Lee Isaac Chung, già Gran premio della giuria al Sundance Film Festival, riesce in una difficile e nient’affatto scontata impresa: lungo le sue (quasi) due ore è capace di far ridere, di far piangere, di arrivare dritto al cuore, senza mai risultare melenso o prevedibile.

Il minari, detto anche crescione coreano o sedano cinese, è un popolarissimo ortaggio utilizzato nella cucina sudcoreana, che qui fiorisce nel letto di un rigoglioso ruscello dell’Arkansas e funge da metafora per il racconto di Chung. Come il minari, Jacob e Monica Yi (Steben Yeun e Han Ye-ri) insieme ai loro due figli, Anne (Noel Kate Cho) e David (Alan S. Kim), sono trapiantati. Negli anni ’80, invertendo il percorso della precedente migrazione dovuta alla Dust Bowl, la famiglia – originaria della Corea del Sud – lascia la California per le sterminate e solitarie pianure dell’Arkansas, con un sogno agricolo in testa. I genitori lavorano come sessatori di pulcini in un allevamento intensivo di pollame, ma Jacob – nonostante la sua incontestata bravura – ha ambizioni imprenditoriali: ogni anno, spiega a sua moglie, trentamila coreani arrivano negli Stati Uniti, e lui vuole coltivare prodotti in grado di dar loro un assaggio (nonché un ricordo) di casa.

“Minari” è il racconto della lotta di Jacob per far decollare la propria attività, e qualsiasi stato d’animo, oltre al ritmo stesso del film, è profondamente legato ai tempi della vita agricola. Nella nuova casa, una roulotte parcheggiata in mezzo a un prato, lontana da potenziali amici e vicini, gli Yi, ognuno a modo suo, cercano di integrarsi nella cultura di quel rozzo Midwest che li ospita, sforzandosi di non dimenticare mai chi sono e da dove vengono, di non perdere la loro identità.

La famiglia si espande con l’arrivo della madre di Monica, Soonja (Yuh-Jung Youn), e il film assume a tratti la parvenza d’un dramma intergenerazionale con coloriture da commedia domestica. La nonna Soonja (Yuh-Jung Youn) scoraggia e destabilizza i bambini con i suoi modi da vecchia paesana che non s’è mai pienamente integrata: è una che mangia e beve strani intrugli coreani e non si comporta come ci si aspetta, una che – insomma – non si mette ai fornelli per preparare ai nipotini una deliziosa torta di mele.

«Non è come una vera nonna», si lamenta David, «Lei non fa i biscotti»; «La nonna puzza di Corea!», le urla dietro, perché ciò che lo infastidisce è quanto poco Soonja si adatti alle sue idee di stampo occidentale su come dovrebbe atteggiarsi la tipica nonna americana. Tra i due però pian piano si crea un legame e sempre più stretto, con nonna Soonja che gli insegna un gioco a carte che implica l’uso di parecchie parolacce coreane, e lui che la introduce ai piaceri di una delle bibite preferite dagli Yankee, la soda Mountain Dew, «Acqua di montagna» che fa «bene alla salute».

In “Minari” c’è l’infanzia di Lee Isaac Chung, la cui famiglia si trasferì in Arkansas negli anni ’80 per dedicarsi all’agricoltura, e il film stesso è una versione rurale alternativa della classica narrativa delle famiglie di immigrati, con gli Yi ei loro figli che si sacrificano e combattono per ritagliarsi uno spicchio di vita in una nuova terra.

Si percepisce una tensione mai risolta riguardo al modo in cui gli Yi si adattano non solo all’America, ma anche a un particolare tipo di americani che esistono in parallelo all’America stessa. Jacob si distingue dai locali (per quanto ne sappiamo, bianchi), è orgoglioso di essere al di sopra delle loro superstizioni: «I coreani usano la testa, okay?» dice al figlioletto dopo aver cacciato un rabdomante che s’era offerto di trovare un pozzo per le sue coltivazioni. Eppure, nella sua ossessione di diventare un self-made man, rimane vittima della promessa implicita degli Stati Uniti: come gli dice il banchiere che gli concede un prestito, mentre parla del sostegno di Reagan all’agricoltura, «Se vuoi coltivare, di ‘sti tempi, o fai le cose in grande o te ne torni a casa».

È sorprendentemente nonna Soonja quella che si dimostra capace di gestire l’essere sradicati meglio di qualsiasi altro personaggio, intrappolato tra la nostalgia per la comunità diasporica lasciata alle spalle; la determinazione a dimostrare la propria autosufficienza; la resistenza nei confronti delle a micro-aggressioni subite per via della diversità. Minari non si propone affatto di generalizzare l’esperienza dell’immigrazione, ma quando all’interno di una trama ricca e attenta a dettagli anche microscopici irrompe improvvisamente la solitudine disorientante, siamo costretti ad ammettere che questa ne costituisce una parte fondamentale.

Il film è ingannevolmente gentile, e ciò rende solo il suo crescendo finale più devastante, un’esplosione di emozioni agrodolci che unisce i personaggi non grazie a una comprensione condivisa, bensì grazie alla perdita. «Farsi male fa parte della crescita», ammette Soonja a un certo punto, ma “Minari” suggerisce che proprio questo può essere il segreto che tiene unita una famiglia. “Casa” non implica l’appartenenza a un appezzamento di terreno o a una particolare comunità, implica l’appartenenza l’uno all’altro, esattamente come le tante piantine di minari che non possono crescere se non insieme: in gioco non c’è tanto un pezzo di sogno americano, quanto, forse, una fetta di cuore.

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