Il 2 marzo 1955 una donna afroamericana salì su un autobus a Montgomery, Alabama, e si rifiutò di cedere il posto a un bianco. Un bambino americano medio saprebbe ricostruire con passione quella scena, esattamente come saprebbe ricreare la prima Festa del Ringraziamento (e sapere che cosa ha significato), lanciare bustine di té da una nave di cartone (e sapere che cosa ha significato) o mettersi un cappello a cilindro di cartoncino e recitare il Discorso di Gettysburg (e sapere che cosa ha significato). È probabile che siate convinti di sapere il nome di quella prima donna che si rifiutò di spostarsi in fondo all’autobus, ma probabilmente non è così. (Io non lo sapevo, fino a poco tempo fa.) E non è una coincidenza o un caso. In una certa misura, il trionfo del movimento dei diritti civili aveva bisogno di dimenticare Claudette Colvin.
La principale minaccia per la vita umana – l’accavallarsi di emergenze, dalle piogge sempre più violente e torrenziali all’innalzamento dei mari, dai periodi di grave siccità alla diminuzione delle riserve idriche, dalle sempre più vaste zone morte negli oceani alla grande diffusione di insetti nocivi, fino alla scomparsa quotidiana di foreste e specie viventi – per la maggior parte delle persone non è una buona storia. Ma anche quando c’importa della crisi del pianeta, la viviamo come una guerra in corso laggiù. Siamo consapevoli dell’urgenza e della cruciale importanza della posta in gioco, ma pur sapendo che sta infuriando una guerra per la nostra sopravvivenza, non abbiamo la sensazione di esserci immersi dentro.
Questa distanza tra comprensione e sensazione può rendere molto difficile agire anche per chi è attento e politicamente impegnato – per chi vuole agire. Quando ti passano i bombardieri sopra la testa, come a Londra durante la guerra, è scontato spegnere tutte le luci. Quando i bombardamenti avvengono al largo, non è scontato, anche se il pericolo di fondo è altrettanto grande. E quando i bombardamenti avvengono al di là dell’oceano, può essere difficile credere a quei bombardamenti, pur sapendo che sono in corso.
Se prima di agire aspettiamo di percepire la crisi che curiosamente definiamo «ambientale» – come se la distruzione del nostro pianeta fosse un mero contesto – ci ritroveremo impegnati a risolvere un problema che non potrà più essere risolto. Per l’immaginazione è una fatica venire a capo del laggiù della crisi del pianeta. Riflettere sulla complessità e sull’ampiezza delle minacce che abbiamo di fronte é spossante.
Sappiamo che i cambiamenti climatici hanno qualcosa a che vedere con l’inquinamento, qualcosa a che vedere con l’anidride carbonica, le temperature degli oceani, le foreste pluviali, le calotte glaciali… ma quasi tutti noi ci troveremmo in difficoltà a spiegare in quale modo il nostro comportamento individuale e collettivo faccia aumentare di quasi cinquanta chilometri orari i venti degli uragani o contribuisca a creare un vortice polare che rende Chicago più fredda dell’Antartide. E facciamo fatica a ricordare quanto il mondo sia già cambiato: non esitiamo di fronte a proposte come la costruzione di una diga marittima di quindici chilometri intorno a Manhattan, accettiamo l’aumento dei premi assicurativi, e il clima estremo – incendi devastanti che arrivano a lambire le metropoli, «alluvioni del millennio» a cadenza annuale, record di vittime per ondate di caldo da record – ormai è semplicemente il clima.
Oltre a non essere una storia facile da raccontare, la crisi del pianeta non si è dimostrata una buona storia. Non solo non riesce a convertirci, non riesce neppure a interessarci. Affascinare e trasformare sono le ambizioni primarie dell’attivismo e dell’arte, motivo per cui il mutamento climatico, come argomento, se la cava così malamente in entrambi i settori. È emblematico che in letteratura il destino del nostro pianeta occupi uno spazio ancora minore che nella più ampia sfera del dibattito culturale, nonostante la maggioranza degli scrittori si consideri particolarmente sensibile alle verità sottorappresentate.
Forse il motivo è che gli scrittori sono anche particolarmente sensibili alle storie che «funzionano». Nella nostra cultura le storie che perdurano nel tempo – leggende popolari, testi religiosi, miti, certi snodi della storia – presentano soggetti unitari, uno scontro epocale tra i cattivi e gli eroi, distinti con chiarezza, e un finale edificante. Di qui l’impulso a rappresentare i cambiamenti climatici – sempre che li si rappresenti – come un dramma apocalittico ambientato nel futuro (e non un processo variabile, progressivo, che accade nel corso del tempo) e a dipingere l’industria dei combustibili fossili come l’incarnazione della rovina assoluta (e non come uno dei vari fattori su cui soffermare la nostra attenzione).
Sembra impossibile descrivere la crisi del pianeta – astratta ed eterogenea com’è, lenta com’è, e priva di momenti emblematici e figure iconiche – in un modo che sia al tempo stesso veritiero e affascinante.