Durante un’ospitata in radio dove ha parlato anche della sua controversa scelta di acquistare il vaccino russo Sputnik V nonostante l’opposizione dei suoi partner di coalizione, al premier slovacco Igor Matovič è stato chiesto «Cosa ha promesso alla Russia in cambio del vaccino?». Matovič ha risposto: «L’oblast’ della Transcarpazia».
Cos’è la Transcarpazia?
È un oblast’ («regione amministrativa», in russo e ucraino) dell’Ucraina, che corrisponde grosso modo alla regione storica della Rutenia subcarpatica. Una terra nota per essere stata abitata storicamente da svariate minoranze etniche (ungheresi, romeni, russi, rom, ruteni, slovacchi, ebrei, bulgari, tedeschi), alcune delle quali tuttora presenti. È anche una delle poche zone in cui si trovino ancora delle comunità lemko, la minoranza rutena da cui provenivano anche Ondrej Warhola e Júlia Justína Zavacká, genitori del più noto Andy Warhol.
Appartenne alla Cecoslovacchia indipendente tra le due guerre e venne annessa all’Unione sovietica al termine la Seconda guerra mondiale, divenendo poi territorio giuridicamente ucraino quando Kiev ottenne l’indipendenza (1991).
La freddura di Matovič non ha fatto ridere Kiev. Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha suggerito al premier slovacco di offrire come contropartita territori slovacchi, non ucraini. Quando Matovič si è poi scusato via Twitter, Kuleba ha detto che, in caso contrario, la reazione di Kiev non sarebbe stata «dura, bensì estremamente dura».
Dal 2014 l’Ucraina è impegnata in un conflitto a bassa intensità con la Russia nelle regioni secessioniste dell’Est, gli oblast’ di Donec’k e Luhans’k, e rivendica ancora la sovranità della Crimea, annessa da Mosca sempre nel 2014 poco prima di intervenire in Donbass.
In sé, quella del premier slovacco è una mera boutade goliardica scappata in un momento di leggerezza. Concretamente, nessun governo slovacco – non solo quello attuale – avrebbe l’interesse né tanto meno la possibilità di intervenire sulle questioni territoriali che riguardano un paese così strategico per il fronte transatlantico come l’Ucraina.
L’unico Stato che ogni tanto si ribella alla linea è, non stupirà, l’Ungheria, che continua a consolidare la propria influenza nei paesi limitrofi dove vivono minoranze magiare, Ucraina inclusa.
Tuttavia, Igor Matovič è un politico, le parole di un politico influenzano i rapporti diplomatici, soprattutto in Europa centro-orientale, dove i processi di nation-building non sono ancora considerabili conclusi.
Matovič ricopre la carica di primo ministro di uno Stato che rimane intimamente legato alla Russia. Un legame pluridecennale che ricalca in carta carbone l’affinità tra Mosca e Berlino, un flirt proibito che ogni tanto rivive ondate di passione condite di latente antiamericanismo, come sul dossier Nord Stream II.
Se la Germania può essere amica della Russia, la Slovacchia ha la scusa ideale per emulare il suo patrono Ue e manifestare a sua volta la propria propensione filorussa.
Bratislava, di norma, si allinea a Berlino, non a Washington – finché le è possibile. Fin dalla sua entrata in Ue (2004), la Slovacchia ha perseguito una linea smaccatamente filotedesca, arrivando a essere l’unico Stato del Gruppo di Visegrád a introdurre l’euro solo cinque anni dopo l’adesione.
Così, in prospettiva ucraina, l’uscita infelice del primo ministro slovacco non è derubricabile a ragazzata. Specie se si ricorda che Matovič non è esponente di una delle varie – ma al momento frammentate e poco consistenti – formazioni orgogliosamente filorusse dell’arena politica slovacca, bensì di un movimento populista e conservatore sì, ma anche pragmaticamente europeista e filoccidentale.
Tanto che i media russi avevano addirittura dipinto il successo del movimento di Matovič, Gente Comune e Personalità Indipendenti (OĽaNO, l’acronimo in slovacco), alle elezioni dello scorso anno come l’inizio di una fase di raffreddamento sull’asse Mosca-Bratislava.
Nei mesi successivi, il premier si è invece dimostrato propenso a interloquire con i partner russi in modo non dissimile da quanto fatto dai predecessori, su tutti Robert Fico, il longevo leader socialdemocratico che ha governato il paese per un totale di dieci anni (2006-2010 e 2012-2018).
Come chiarito con la mossa a sorpresa con cui Matovič ha ordinato l’acquisto di 2 milioni di dosi dello Sputnik V, farmaco non ancora approvato dall’Agenzia europea per i medicinali. Matovič ha agito all’insaputa del proprio gabinetto, facendo approvare l’acquisto direttamente dal ministro della Salute Marek Krajci, suo compagno di partito. A elettori, media e partner di coalizione il premier ha svelato il misfatto soltanto lunedì 1 marzo, quando sono atterrate in Slovacchia le prime 200 mila dosi di Sputnik V. Sia gli alleati di governo che la presidente Zuzana Čaputová sono insorti. Il ministro degli Esteri Ivan Korčok (Libertà e Solidarietà) ha definito il vaccino prodotto dai russi «uno strumento politico della guerra ibrida che la Russia sta conducendo contro l’Occidente».
Guerra che nessuno in Europa conosce così bene come l’Ucraina.
Lo spettro che aleggia di fronte agli occhi delle autorità ucraine ogni qualvolta un politico europeo, specie se membro di governo, mette in dubbio, per celia o per convinzione, l’integrità territoriale del paese post-sovietico è la possibilità che il blocco occidentale attenui la sua ostilità a Mosca, e accetti quindi lo status quo imposto dal Cremlino in Crimea e soprattutto in Donbass.
L’amministrazione Trump, con la sua politica ondivaga e ricattatoria, ben riassunta dalla celebre telefonata tra il presidente repubblicano e l’omologo ucraino Volodymyr Zelens’kyj, ha per la prima volta obbligato Kiev a convivere con questo angosciante timore.