Semi e pinteE dall’orzo venne la birra

Pare che tra le più antiche conoscenze dell’essere umano vi sia una rudimentale ricetta per la birra, che nel tempo non è cambiata di molto e si basa su alcuni passaggi fondamentali: coltivazione e fermentazione, parole d’ordine per il birrificio Serrocroce, la cui storia parte proprio da un campo di grano

Campi di Serrocroce

Ormai da qualche anno ha preso solidità la teoria secondo la quale i nostri antenati iniziarono a coltivare non solo per produrre cibo, ma anche, se non soprattutto, per accumulare cereali da poter trasformare in alcol, in particolare, birra. La passione per i prodotti fermentati è, infatti, molto antica e secondo diversi studi il loro consumo sarebbe stato fondamentale per lo sviluppo di alcune abilità come, per esempio, la scrittura.

Tra i primi grani addomesticati con questo scopo c’era sicuramente l’orzo. Come tutti i cereali, questa pianta custodisce nel chicco, sottoforma di amido, gli zuccheri di cui si nutrirà durante la crescita. Il successo di questa graminacea tra i nostri antenati si deve, oltre al suo essere rustica e facilmente adattabile, al fatto che essa possiede un elevato contenuto di amilasi, quegli enzimi utili a separare le catene di amido in zuccheri rendendoli così disponibili per la crescita nonché digeribili dal nostro organismo e pronti per la fermentazione. L’orzo, inoltre, a differenza di altri grani, attiva questo processo senza particolari trattamenti: gli è sufficiente essere in un ambiente umido e temperato per attivare le amilasi e germinare. L’uomo colse ben presto questa proprietà e iniziò sfruttata prendendo l’abitudine di lasciare l’orzo in ammollo qualche ora prima di consumarlo, in modo che diventasse tenero e dolce. Questa pratica, presumibilmente, portò anche alla scoperta della fermentazione e della birra, conseguenze probabili della sbadataggine di qualche nostro antenato che dimenticò i chicchi a bagno, provocandone la fermentazione e il conseguente cambio di aspetto e di sapore.

Le innovazioni non finirono qui. Se da un lato, infatti, l’orzo bagnato era più saporito e nutriente, dall’altro durava meno, e così venne introdotta un’altra decisiva invenzione: una volta bagnati, i chicchi venivano compattati in forma di pagnotte che, dopo essere state cotte in forno, potevano essere conservate a lungo. Il bappir, questo il nome di tali mattonelle, era il predecessore del malto d’orzo ed impiegato per produrre una bevanda alcolica a sua volta antenata della birra, la cui preparazione è dettagliatamente spiegata in un inno sacro sumero intitolato a Ninkasi, la dea della birra.

Il malto d’orzo è ancora oggi, a oltre 5000 anni di distanza, uno dei quattro ingredienti necessari per produrre birra. Fornisce al mosto gli zuccheri che, grazie alla fermentazione, vengono trasformati in alcol e anidride carbonica; ne determina il colore e apporta alcune note aromatiche e gran parte delle componenti dolci, che ne costituiscono il sapore. Il malto quindi non è altro che orzo germinato e poi essiccato. A seconda dell’intensità del calore e della durata del processo di essiccamento si hanno malti di colore diverso… e di conseguenza birre chiare, ambrate o scure, dalle note di miele, caramello o caffè.

Sebbene il nostro Paese abbia una discreta produzione di cereali, l’orzo non è tra quelli più coltivati (se ne producono quasi 11 milioni di quintali contro i 40 di frumento) e per questo la quasi totalità dei produttori artigianali di birra acquista il malto da altre nazioni, Germania e Regno Unito su tutte. Ma le cose, negli ultimi anni, stanno un po’ cambiando e sono sempre di più i birrifici agricoli, quelli che cioè utilizzano almeno il 51% di materie prime autoprodotte. Da poco meno di due anni alcuni di questi birrifici si sono riuniti nel Consorzio Birra Italiana che ha lo scopo proprio di promuovere le birre di filiera nazionale. Tra loro, una delle realtà più interessanti è Serrocroce a Monteverde, un bellissimo borgo di poco più di 700 abitanti, in provincia di Avellino.

Vito Pagnotta

Per raccontare la storia di questo produttore bisogna andare indietro fino al 1969, anno in cui Vito Pagnotta, omonimo nonno dell’attuale birraio, fondò una piccola azienda agricola che coltivava cereali, soprattutto grano duro, poi venduti a mulini e pastifici del territorio. Con il passare degli anni l’economia dell’azienda andò peggiorando e sarebbe stata destinata a morire se Vito Pagnotta, stavolta il nipote, non avesse, negli anni Novanta, iniziato a fantasticare un destino diverso per quei cereali, magari alcolico. Così dopo avere studiato agraria nel capoluogo di provincia ed essersi laureato a Campobasso con un progetto sulla valorizzazione dei prodotti della sua azienda agricola, decide di trasferirsi in Belgio per studiare la produzione della birra. Proprio durante quel periodo lavorò all’idea di una birra artigianale da filiera agricola. Idea, che una volta tornato in Italia, nel 2012, vide la luce con la nascita del suo birrificio Serrocroce. Vito Pagnotta oggi autoproduce tutti i cereali di cui ha bisogno per le proprie birre e ne fa lavorare una parte nei vicini impianti della più grande malteria che esista nel nostro Paese, l’Agroalimentare Sud di Melfi. A partire da quest’anno Serrocroce sarà pronto anche a lanciare una birra interamente biologica. Tra i suoi prodotti più significativi c’è sicuramente la Granum, premiata come birra slow nell’ultima edizione di Birre d’Italia, e che è prodotta con malto e grano duro Senatore Cappelli ed è aromatizzata con coriandolo. Una saison profumata, con belle note speziate e una bocca di bella struttura ampia e alleggerita, proprio come chiede lo stile, da una leggera nota acidula. Un bellissimo sorso che racconta di questo territorio e di una storia lunga quasi 5000 anni.

 

 

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