Il terroir è un insieme di fattori geografici, geologici e climatici che caratterizzano l’unicità di un’area, ma comprende anche il modo in cui le persone gestiscono, interpretano e vivono quel territorio. Quando in enologia parliamo di terroir intendiamo quindi la terra, e di conseguenza il clima, l’aria, l’acqua e l’esposizione a cui sono esposte le vigne, ma anche il contesto storico, culturale, antropologico e sociale nel quale le vigne sono immerse.
In italia ci sono due terroir particolarmente identitari, in grado di restituire nel vino le loro particolarità e le loro caratteristiche: la Sardegna e l’Alto Adige.
LA SARDEGNA DI SELLA E MOSCA
Sella e Mosca è sempre stata nei sogni e nei desideri dei Moretti, detentori tra gli altri del colosso Bellavista, ancora prima che venisse messa in vendita, proprio perché questa tenuta e i suoi vini sono un simbolo della Sardegna e dell’italia.
Come racconta Francesca Moretti, attuale presidente del Gruppo: «Mio padre ama la terra, i territori e le loro espressioni e la sua prima avventura è stata la Franciacorta, a cui è seguita la ricerca della Toscana e il genius loci a Suvereto. Poi è arrivata l’idea di espandersi e di acquisire anche Sella e Mosca nel 2016, dove prima abbiamo cercato di conoscere e poi di portare la nostra esperienza in questo territorio, che è molto radicato, cercando di ridare a questa azienda la forza che ha sempre avuto. Questa realtà isolana ha più di 120 anni e come mi piace dire racconta fortemente la sua “sarditudine”. Siamo quindi molto legati alla Sardegna e da sempre amiamo questo territorio fedele a se stesso. Per questo non abbiamo voluto snaturare l’azienda ma abbiamo provato a valorizzare queste caratteristiche peculiari cercando di portare avanti il lavoro che l’azienda ha sempre fatto».
Ovvero mettere in luce in bottiglia i vini legati al territorio, i vitigni tipici sardi e soprattutto quelli di Alghero. Sella e Mosca sono stati due personaggi importanti per la storia della cantina, che hanno dato vita a questa azienda proprio per valorizzare un territorio. I due, infatti, impiantarono Sella e Mosca nel 1899, in pieno periodo post fillossera, quando questa malattia ha distrutto tutti i vitigni e serviva ricominciare con nuova linfa. Da imprenditori pensarono di investire in Sardegna producendo barbatelle, che erano la base per le viti che avrebbero dovuto ripopolare il territorio nazionale. Nella loro base sarda sono transitate in quel periodo moltissime varietà, in un catalogo di oltre 1800 specie. Lo sforzo agronomico e vivaistico è stato decisamente significativo: e subito dopo si è trattato di concentrarsi su quelle più adattabili al territorio. È il caso per esempio del Torbato, vitigno superstite di provenienza spagnola che ha creato un forte connubio con questo territorio ed è stato qui molto ben accolto. Un autoctono che non è puro esercizio ampelografico, ma produce economia anche su vasta scala.
La Sardegna sta crescendo molto dal punto di vista enologico, e se anche la superficie vitata di 27 mila ettari – se rapportati ai quasi 90mila dei primi anni ’80 – è in netto calo, la qualità è cresciuta molto: vermentino, torbato e cannonanu stanno destando un grosso interesse sull’isola e anche fuori dai confini regionali. Il Vermentino, per esempio, è un vitigno che ha sollecitato l’attenzione degli addetti ai lavori e della critica e da poco più di 1000 ettari adesso è la denominazione a bacca bianca più conosciuta, con 4400 ettari: un vero exploit per la sua ecletticità, facilità di coltivazione e vinificazione. L’azienda storica lo produce nella versione Vermentino di Sardegna Cala Reale, dal 2016 coltivato interamente in biologico, con un gusto salino che arriva dal mare, una bella persistenza e non ha residuo zuccherino, evitando gradazioni alcoliche troppo spinte. Negli aperitivi, antipasti e nella cucina di mare trova il suo abbinamento naturale. Poi c’è il Vermentino Gallura Superiore, ancora diverso perché coltivato su 1100 ettari vicino a bellissime spiagge, su un terreno caratterizzato da rocce granitiche che negli anni hanno creato un territorio sabbioso grossolano, molto povero ma in grado di dare vini molto ricchi. E se tutti i terreni godono della stessa solarità e ventosità, l’espressione pedologica dà un’espressione del vino completamente diversa: in questo troviamo infatti molto più mediterraneo, con note speziate, di macchia, rosmarino, elicriso che ci ricorda proprio l’ambiente della Gallura, avvolto dai profumi della costa.
Perché è importante capire da dove arriva un vino? Perché spesso – se le aziende che lo lavorano sono attente e scrupolose, fedeli ai territori e ai vitigni – il bello dell’enologia è la non omologazione, che regala profili diversi a vitigni identici ma cresciuti in diversi luoghi.
L’ALTO ADIGE MULTIFORME
E se al mare possiamo cogliere la mediterraneità e la salinità, in Alto Adige, il terroir è altrettanto variegato quanto il paesaggio. Come i pendii della Val Venosta, le colline soleggiate della Bassa Atesina o i vigneti di stampo “alpino” della Val d’Isarco. Nel raggio di nemmeno quaranta chilometri, l’Alto Adige è un’antologia di paesaggi e zone climatiche che non potrebbero essere più eterogenee, proprio come i vini che qui vengono prodotti. I vignaioli di questa terra hanno imparato da secoli a far tesoro di questa varietà, facendo emergere l’unicità di ogni appezzamento in sapori inconfondibili. 300 giornate di sole all’anno e un clima continentale temperato, fanno dell’Alto Adige non solo una delle mete di villeggiatura più amate d’Europa, ma anche un territorio ideale per la viticoltura. La catena alpina a Nord scherma efficacemente l’Alto Adige dai venti freddi settentrionali, mentre verso Sud l’orografia del territorio si apre accogliendo gli influssi benefici del Mediterraneo. Le forti escursioni termiche fra il giorno e la notte, una temperatura media di 18 gradi durante il periodo vegetativo e la presenza di precipitazioni frequenti, sono gli ingredienti ideali per vendemmiare uve di qualità, perfettamente mature e ricche di aromi tipici.
Ma è il terreno stesso a determinare questa grande varietà. Le caratteristiche geologiche delle aree viticole altoatesine cambiano spesso da una tenuta all’altra, anche a distanze minime. Si va dal porfido vulcanico alla roccia metamorfica di quarzo e mica, dal terreno calcareo o dolomitico alle marne. Una parte dei vigneti del territorio si estende su conoidi alluvionali o detritiche, e in genere sono terreni profondi e lontani dalle falde acquifere. La vite tende a sviluppare per natura radici molto lunghe, e proprio in questi terreni riesce a penetrare in profondità, resistendo meglio anche ai periodi di siccità prolungati. Altri vigneti, invece, sono situati su versanti o terrazzamenti dove prevalgono i sedimenti morenici. La composizione geologica di queste aree è quindi molto variabile, con terreni in cui le radici fanno più fatica a penetrare e dove la permeabilità all’acqua è spesso molto ridotta. Oggi, grazie alle ricerche sistematiche condotte sulle varie tipologie pedologiche, i vignaioli altoatesini sanno bene quali vitigni crescono meglio su quali terreni. La varietà autoctona del Lagrein, ad esempio, predilige terreni caldi ghiaiosi o sabbiosi, mentre il Gewürztraminer esprime il meglio di sé su terreni argillosi e molto calcarei.
I terreni sassosi di calcare dolomitico, diffusi soprattutto nelle propaggini meridionali dell’Alto Adige, traggono origine dal celebre massiccio montuoso delle Dolomiti, dichiarato nel 2009 dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Grazie alle loro caratteristiche minerali, questi terreni caldi e molto permeabili sono ideali soprattutto per produrre vini bianchi di corpo e dal gusto deciso.
La produzione vitivinicola dell’Alto Adige si caratterizza sin da tempi lontani per essere una realtà micro-strutturata e variegata, composta oggi da quasi 5.000 piccole, se non piccolissime, realtà a gestione familiare. Aziende che sono un pilastro importante del tessuto sociale e culturale, percepito come tale da tutta la collettività. Questo forte senso di coesione che ha permesso, fin dagli anni 80, che il patrimonio enoico disseminato e parcellizzato nel territorio non venisse disperso ma invece protetto e valorizzato. Qui ci sono senso di appartenenza, attenzione al piccolo, visione e lungimiranza, desiderio e l’impegno di consegnare alle generazioni future un’eredità dal valore inestimabile.
Qui il terreno è molto più che una superficie produttiva: è identità e orgoglio, caratteristiche da cui i vini dell’Alto Adige traggono carattere e peculiarità, tutti legati dal Consorzio Vini Alto Adige, che nasce proprio con il preciso intento di proporsi come organismo di riferimento per dare la migliore visibilità possibile a tutti i soggetti del settore, ai pregi e alle caratteristiche della produzione vinicola altoatesina.
Il Consorzio Vini Alto Adige ha tracciato il bilancio della vendemmia 2020, che si è rivelata soddisfacente nei risultati raggiunti, nonostante le condizioni atmosferiche abbiano dato filo da torcere ai vignaioli altoatesini.
«L’annata 2020 è stata sicuramente impegnativa» – commenta Eduard Bernhart, direttore del Consorzio Vini Alto Adige – «dalle prime settimane di maturazione fino alla scelta del momento giusto per vendemmiare. Ma nonostante tutto la vendemmia è stata positiva: in cantina si va delineando un’annata di qualità buona per i vini bianchi, tra cui si distinguono gli ottimi risultati raggiunti da Chardonnay e Pinot grigio. Tra i rossi, Pinot Nero e Lagrein hanno raggiunto una qualità eccellente, con Merlot e Cabernet che si sono attestati comunque su buoni livelli, nonostante le condizioni meteorologiche precarie abbiano richiesto una vendemmia più precoce. La Schiava si presenta meno corposa rispetto alle annate precedenti».