L’appellativo che le hanno dato è una descrizione perfetta: La Diva aux pieds nuds. Diva a modo suo, si intende. Come può essere diva la più famosa cantante dei bar e dei night club di Mindelo, 70mila abitanti arroccati intorno al porto di un’isola arida e vulcanica, non lussuriosa e tropicaleggiante come la latitudine suggerirebbe. L’isola è Såo Vicente, una di quelle più sopravvento, ad ovest, del piccolo arcipelago di Capo Verde, dieci isolette spuntate nell’oceano Atlantico a 600 km ad ovest della costa africana del Senegal.
Esattamente a metà strada fra Brasile e Portogallo, la madrepatria coloniale di entrambi. I portoghesi in 500 anni di dominio hanno usato i porti di Capo Verde per commerci e tratta degli schiavi. Ed è stato quel mix di navigatori bianchi e arabi e schiavi neri e chissà chi altro e da dove che ha popolato quelle terre, alla loro scoperta disabitate. Sono diventati i capoverdiani.
Cesària Evora è rimasta una diva in quelle briciole di terra finché nel 1985 il più famoso dei cantanti capoverdiani emigrato in Portogallo, Bana, non le ha dato una chance chiamandola a cantare in alcuni concerti a Lisbona.
Ha già 44 anni quando finalmente può realizzare il suo sogno, lei che non è mai uscita dall’arcipelago: quello di essere una diva oltre il grande Mare Azul, il mare blu, in Europa prima e America e Africa poi.
Il suo rimpianto più grande l’ha sempre candidamente confessato nelle interviste, quando la popolarità sarebbe arrivata: «L’unico rimpianto è che ci sia voluto così tanto per arrivare al successo».
Ma alla fine non solo è diventata una vera diva, è diventata un simbolo, una ambasciatrice del suo piccolo orgoglioso Paese, una messaggera di speranza di riscatto e di identità non solo per gli isolani, ma anche per quei due terzi del popolo capoverdiano, in tutto un milione di persone circa, che negli anni sono emigrati a cercar fortuna altrove nel pianeta.
In “Capo Verde” Cesaria evoca quella voglia di emigrare verso una terra felice:
«Capo Verde, ho aspettato così a lungo
La mia fede, la mia speranza è di andare lontano
In una grande terra, in una terra felice
Ho ancora fede e spero
Che Dio non prenda la mia vita
E mi mandi in Cielo
Nel mio angolo di tristezza
In questo angolo di tormento».
Ma per una donna come lei, nata povera, madre di tre figli con uomini che non si erano mai fermati, che la vita aveva allenato a cavarsela da sola e andare avanti, non potevano esserci scorciatoie. La strada era lunga, e doveva farla da sola. A piedi nudi.
Quando è arrivata sulla scena internazionale, quello dei piedi poteva sembrare un bizzarro vezzo (non l’aveva fatto anche la mod girl Sandie Shaw?), ma non era un vezzo, non era moda. Quei due piedi neri nudi, segnati da calli e verruche, che portavano in giro quella donna piccola e robusta, sguardo da chi le aveva viste proprio tutte, erano la sua storia.
Non servivano le scarpe, a Mindelo, per correre nei campi da bambini. Servivano, se mai, per passeggiare per le strade dei quartieri buoni, dove i senzascarpe sul marciapiede non potevano passare, per loro c’era solo la strada. Ma, in fondo, il clima mite non richiedeva mai di rivestirli, i piedi, non serviva farlo quando cantava sulle navi che attraccavano, dove ha cominciato la sua carriera. Figurarsi nei bar.
Sarebbero diventati il segno del suo riscatto: con i piedi scalzi sarebbe andata ovunque, dal lungomare di Mindelo all’Olympia di Parigi e sui grandi palcoscenici di tutto il mondo. I piedi nudi stavano a ricordare a tutti da dove veniva, e la libertà che si era conquistata. Erano una fotografia, come quella sul passaporto, una metafora con tanti lati, e allo stesso tempo la cosa più semplice del mondo.
Le isole dell’arcipelago di Capo Verde non hanno importanza strategica, non hanno minerali preziosi né un’economia rilevante, turisticamente non sono una destinazione prediletta. Sono aride, quasi un’estensione del Sahara, in particolare quelle sottovento con la capitale Praia, che sono più vicine all’Africa. Ciclicamente la siccità rende la vita precaria. Ma sono depositarie di uno dei segreti meglio custoditi della musica del mondo, la morna.
Forse dall’inglese “to mourn”, piangere per un lutto, più probabile da “morno” che in portoghese significa “caldo e umido”, ma si capisce subito quale feeling porta con sé. È una musica che si ispira al fado portoghese, sono stati spesso paragonati al blues, per l’intensità e una vena addolorata che trasudano.
Questione di feeling, le somiglianze finiscono lì, perché il blues – per metrica e battute, e per l’elettrificazione che ha avuto dagli anni 40 – è un suono parecchio diverso.
La morna è malinconica, addolorata ma mai davvero disperata, quasi sempre scritta in minore, musica gentile suonata acusticamente da piccoli gruppi sublimi per semplicità, maestria e musicalità. Il blues ha un beat, la morna non batte, ondeggia, ti abbraccia sinuosa. Ti strega con la dolcezza del kriolu, o kreol, o creolo, come diciamo noi: una base di portoghese shakerata con dialetti africani, origini che tornano indietro nel tempo. Come quelle di questa ormai musica nazionale, delle cui origini si sa poco, se non che è sbocciata nelle sue prime forme verso il 1800, e che ha stili diversi da isola a isola persino in quel piccolo arcipelago dove ci sono anche forme più direttamente africane come il batuque e la tabanca.
Su quell’originale fado, così struggente, la musica di Capo Verde si è mischiata sia ad est con la musica africana che ad ovest col lontano Brasile, Paese fratello in malinconia e saudade. Soprattutto nella sua versione più allegra e vivace, la coladeira, da ballare strettissimi, come la parola “cola”, colla, impone.
Lì senti tracce di samba, lo swing diventa seducente, i fianchi si muovono morbidamente. Lì senti il Brasile, la voglia di alzare il ritmo e farsi ballare. Ascolti “Angola”, uno degli hit di “Miss Perfumado”, e non ti fermeresti più. «Non siamo gente triste. Al contrario. Non siamo mai depressi. Ma nelle nostre canzoni cantiamo le nostre sensazioni, parliamo della vita di tutti i giorni e della tristezza che puoi avere qualche volta, perché la vita è così. Ma in genere siamo gente felice, me inclusa».
La diva dai piedi nudi di questa musica meticcia è l’interprete insuperabile. La sua voce di seta, di una limpidezza e intensità toccanti, ha messo morna e coladeire al fianco di quelle magie musicali che ogni tanto spuntano nei luoghi del Sud e raccontano meglio di una guida turistica il senso della vita, lì e solo lì, anche se diventeranno popolari altrove. Gli arcipelaghi, pensate ai Caraibi, sono porti di mare, luoghi di contaminazioni, identità forti ma aperte ai venti e alle correnti.
Cesària nasce nel ’41, famiglia povera di sette fratelli, di cui cinque emigreranno. Infanzia felice finché a sette anni non muore papà, suonatore part time di violao (la loro chitarra) e di cavaquinho (una chitarra più piccola), e tutto si sfascia.
Finisce prima in affido a un collegio religioso, poi in una scuola privata a studiare e imparare il cucito. È un chitarrista, Edouardo, che la sente cantare, e comincia ad accompagnarla nei suoi primi spettacoli, a sedici anni. All’inizio per pochi, ma presto la sua fama si allarga, e grazie a un altro musicista, Gregorio “Goy” Gonçalves, diventa una presenza regolare anche alla radio locale, Radio Barlavento.
Ha una voce come il miele, un richiamo dei sensi: «Ho avuto talmente tanti amori da perdere il conto. Mai nulla di ufficiale. Gli uomini con cui ho avuto dei figli non hanno mai vissuto con me. La prova? Io ho sempre abitato con mia madre, la sua casa è sacra».
È una donna indipendente, ma non è l’unica, come ha scritto Chiara Ferrari in un bellissimo articolo su patriaindipendente.it : «Il padre del suo primo figlio Eduardo si chiama Benjamin, si conoscono a bordo di un battello dove lui è meccanico, lei ha diciotto anni ed è lì per cantare. Quando resta incinta lui sparisce senza mai più dare notizie di sé. Ma se un uomo si allontana un altro arriva, perché Cesària è così: quando sta con un amante ne sta già guardando un altro. Le piacciono i giocatori di calcio: atletici, muscolosi. Con uno di loro mette al mondo altri due figli: uno muore piccolo, l’altra, Fernanda, vivrà con Cesària tutta la vita, portando in quella casa i suoi figli, nati anche loro da padri sconosciuti. Molte donne di Capo Verde allevano da sole i loro figli, in parte perché ai loro uomini non importa essere padri, in parte perché questi uomini devono partire per guadagnare qualche soldo. A volte anche perché, pur guadagnando abbastanza, di quei figli si dimenticano comunque. E anche loro, le donne, di tanto in tanto se ne vanno e lasciano quei loro pargoli ai nonni. A Capo Verde le donne si arrangiano come possono».
Quando nel 1975 in Portogallo cade la quarantennale dittatura di Salazar e Capo Verde ottiene l’indipendenza, dopo il primo entusiasmo il nuovo partito unico che si insedia a Capo Verde ha parecchi problemi economici da affrontare, la chiusura dei bar e un clima di austerità la priva del suo sostegno economico e Cesària smette di cantare. Per dieci lunghi anni.
Si dà all’alcool, la bottiglia di whisky o di grog, il brandy isolano, rimarrà a lungo al suo fianco, e arriva a fumare due pacchetti di sigarette al giorno. Considerando che la combinazione delle due è in genere il vademecum per rovinarsi la voce (a volte apposta, vedi Tom Waits) o abbassarla di tono, Cesària è una sorta di miracolo vivente: la sua voce rimane di una dolcezza, di una limpidezza assolute, come è possibile?
L’invito di Bana, nel 1985, è l’inizio, finalmente, di un domino che non si fermerà più. Pubblica alcuni brani in una compilation di cantanti capoverdiane. Nel 1988 Josè da Silva, genitori capoverdiani e residenza a Parigi, titolare di una minuscola etichetta che crescendo negli anni pubblicherà molta della migliore musica africana, la Lusafrica, sente in una discoteca di Lisbona uno di questi brani e le propone di venire a Parigi e incidere un album.
Il primo disco, “La Diva Aux Pieds Nuds” vende solo nella comunità capoverdiana, anche se ha un delizioso riempipista, “Bia Lulucha”, una coladeira con arrangiamento simil-Zouk antillano. Anche il secondo “Distino di Belita” non va da nessuna parte. Ma i due successivi, “Mar Azul” e “Miss Perfumado”, ‘91 e ‘92, sono il lasciapassare per la celebrità, a partire dalla Francia, dove Le Monde titola: «Appartiene all’aristocrazia delle cantanti da Cafè. Con una voce da sciogliere l’anima».
Il secondo dei due contiene quello che negli anni sarà la sua signature song, “Sodade”: quell’indefinibile nostalgia, se ne prendiamo l’accezione più comune, quella brasiliana, che nasconde qui un sentimento ben più struggente, la voglia di rimpatrio dei lavoratori capoverdiani che per necessità vanno a lavorare nelle piantagioni di cacao di Sao Tomè e Prìncipe, due isolette ancor più piccole, ma rigogliose, che stanno molto più a Sud, di fronte al Gabon.
Sao Tomè e l’Angola, sono i luoghi dell’emigrazione povera, e Armando Zeferino Soares, nato a San Nicolau, la compone come un saluto per due amici che su quella nave verso Sao Tomè si sono imbarcati.
È di una drammaticità venata da una dolcezza infinita, una melodia indimenticabile, una canzone che è il bastimento di Cesaria per la notorietà internazionale:
«Chi ti ha mostrato questo lungo cammino?
Questo cammino verso Sao Tomé?
Se mi scriverai io ti scriverò
Se mi dimenticherai ti dimenticherò
Fino al giorno In cui tornerai
Nostalgia, nostalgia
Nostalgia di questa mia terra, Såo Nicolau».
Questa edizione deluxe di “Miss Perfumado”, uscita nel 2012 per il ventennale – un po’ inspiegabilmente ma fortunatamente – raccoglie entrambi gli album, diversi e complementari, che mostrano benissimo l’evoluzione musicale di Cesària, anche se internazionalmente è il secondo ad esser conosciuto prima, e “Mar Azul” finirà un po’ nelle retrovie.
Ed è un peccato, perché se “Miss Perfumado” ha una produzione più matura, è più vario e contiene il superclassico, “Mar Azul” è ancor più fascinoso e toccante, probabilmente più vicino alle sue radici e ha una scelta di composizioni eccellente.
“Mar Azul” comincia, e tutto diventa favola, fantasia, sentimento, realtà. Cesària con il mare ci parla, lo invoca, lo supplica. Come chiunque viva sul mare lo teme e lo rispetta, ma sa che anche lui ha un’anima:
«O mare
Per favore placa le tue onde e lasciami andare
Fa che io possa vedere la mia terra ancora una volta
Fa che io possa salvare mia madre
O mare,
Mare blu, alza lentamente la tua marea
Luna piena, illumina il mio cammino
Così che io possa tornare alla mia terra
La mia piccola Såo Vicente,
E abbracciare me cretcheu, il mio amore».
E per far sì che sia una serenata così suadente che neanche un oceano possa sfuggire a quella invocazione, Cesària si è portata un’orchestrina. Gli strumenti a corde fanno la base, mentre un piano delicato, un clarinetto leggero come una piuma e un’armonica, chiamati per far magìe, ci mettono tutto il cuore. La partitura la mette B. Leza, uno dei grandi autori capoverdiani, zio di Cesària.
Cesària, Cize, lei sa come sedurre. Per questo così tanta gente si è abbandonate a lei, alla sua voce che ricorda e consola, un balsamo di miele per anime ferite, vagabonde, perdute. “Cize” è una morna scritta dal giovane Morgandinho, ed è una dichiarazione d’amore, che dico, una totale perdizione:
«Un raggio di luce sul tuo viso
Illuminami sulla via del mio destino
Conosco la felicità
O Dio, non è che la pura verità.
I tuoi occhi nella luce argentata
Per me il tuo viso è quello di una santa
Oh Cize, sei la luce della mia vita.
Voglio morir
Se mi respingi, mia cara.
Di notte sogno la mia amata
Un sogno felice, ancora più della realtà
Prego Dio che tu sia mia
Senza il tuo amore non c’è felicità».
Cize canta di e per se stessa, che strana sensazione. Del resto, spesso canta strofe scritte da uomini, lasciandole al maschile come nell’originale. Ma forse qui è come se qualche donna la stia cantando a lei, e allora tutto torna. Qualunque donna, nobildonna o contadina, quelle cose lì le ha provate, o vorrebbe provarle.
Ci sono altri momenti belli in “Mar Azul”, la coladeire di “Estandinha” e “Cinturao Tem Mele” che esce dritta dal cha-cha-cha, samba e qualsiasi altra cosa che si muove sotto il cielo. C’è quel desiderio di fuga, e quell’amore per la propria terra condiviso in tutto il mondo, ma così più forte dove la vita non ha avuto tutto quello che meriterebbe.
C’è un grande tema di fondo nei testi, semplici e poetici, di queste canzoni, più sentimentali quelli delle morna, più sfrontati e arguti quelli delle coladeire: hanno a che fare con la dipartita, la distanza, la nostalgia di chi sta lontano e l’urgenza di partire di quelli rimasti a casa. È musica con un’isola al centro e il mare tutto intorno.
La morbidezza con cui la chitarra, il piccolo cavaquinho a quattro corde, il contrabbasso, un leggerissimo battito di mani, introducono “Sodade” sono un tappeto magico, chiudi gli occhi e dall’altra parte ti accoglie Cize: se hai mai visto una sua foto, così burbera e intensa e attenta e vissuta e profonda, puoi immaginare il suo volto.
Ci sono tanti echi, in queste canzoni, echi di paesi lontani che aggiungono qualche pennellata differente, per esempio alla morna composta da Manuel De Novas, uno degli autori più prolifici dell’isola: “Direito di Nasce” sa di Rive Gauche e di tango argentino, sarà per quelle fisarmoniche e quel pianoforte, ma forse è solo un piano bar, un fiore nei capelli e lo sguardo di una “Miss Perfumado”, ragazza profumata, che si incrocia con le prime file:
«Lasciami morire sognando
All’ombra dei tuoi occhi tristi
Giovane donna gentile dal corpo profumato
Lasciami morire così, mio fiore
Nell’ombra dei tuoi occhi belli
Lasciami morire sognando
Come la colomba è felice nel suo nido
Anch’io sono felice
All’ombra dei tuoi occhi, mia amata».
In mezzo a tutti questi autori classici della morna, c’è anche un giovane, Teofilo Chantrè, che a 16 anni la madre portò a Parigi, e che la sua sodade per i nonni a Såo Vicente riconnetteva a casa. Conosce Cesària in terra di Francia e ne diventa fedele musicista e autore: qui ne scrive tre, la malinconica “Luz de Mis Ojos”, la conclusiva “Tortura” e “Recordai”, dedicata alla notte di San Silvestro.
Potrebbe essere al porto di Mindelo, la gente che fa un bagno augurale di mezzanotte, come all’aperto di un bar a Rio con un bicchiere di rum, le notti di stelle e di fuochi a Capodanno a unirli.
Ha quella leggerezza, quella soavità che nessuno hai mai superato, in nessuna parte del mondo. Perché è una canzone di festa e nessuno fa festa meglio di quelle due o tre chitarrine, una signora a piedi nudi che canta e balla e le amiche che dietro le fanno i cori:
«Oggi è la fine dell’anno
O popolo mio, lo celebreremo
Con il nostro benessere
Ci godremo questa giornata
Santo della fine dell’anno,
Ci ha detto di onorarlo
Nella forza delle nostre tradizioni
Perpetueremo questa gioia
Recordai, recordai
Signore Santo Silvestro
Veniamo per augurare a tutti buone feste
Veniamo ad augurare buone feste a Capo Verde
Oh che sinfonia nella baia
Oh fratello mio sono felice
Quale armonia in questa melodia
Cantato da diecimila voci
Oh che notte
Così morbida e colorata».
Sì, sanno anche essere felici.
«I soldi hanno comprato la felicità?», le hanno chiesto in un’intervista quando il successo internazionale, la fama e prestigiosi premi erano stati conquistati: «Ero felice prima ed ero felice dopo», ha commentato ineffabile. «Ma la vita non è po’ più confortevole, adesso?»… «Certo. Ma in quanto a felicità, era la stessa».
Chissà che volto aveva a vent’anni, prima del successo, Cesària. L’abbiamo conosciuta quando ne aveva più di cinquanta, quando quell’aria indipendente e orgogliosa ancora c’era, ma si era trasformata nella serena accettazione e consapevolezza di una nonna che nella vita aveva attraversato tre generazioni.
Neanche nei primi filmati degli anni ‘90 la vedevi muoversi sul palco: sempre ferma, microfono ben saldo in mano, sguardo lontano, una cicca e un cicchetto nelle pause, magari a un tavolino come al Bataclan ’95.
Ma negli ultimi anni, prima dell’abbandono dei live e della morte pochi mesi dopo, nel 2011, il volto era ancora più serio, la stanchezza visibile e i sorrisi sempre più radi.
Il successo era veramente arrivato troppo tardi per goderselo fino in fondo. Voleva forse recuperare il tempo perduto, ma si rendeva conto che quel corpo stanco e provato stava mostrando la corda.
Gli ultimi anni, però, le hanno dato tutto quello che un’artista può desiderare: i migliori musicisti l’hanno accompagnata in sala e sui palchi, piccole o (alla fine) grandi orchestre di maestria insuperabile, vera gioia musicale; le platee sempre piene, spesso con nomi eccellenti che le eran venuti a rendere omaggio; duetti dal vivo e in studio con le massime interpreti, le regine del nuovo fado Dulce Pontes e Mariza, la sua protetta capoverdiana Lura e le greche Elefteria Arvanitaki e Dimitra Galani, la colonia brasiliana, Maria Monte e Caetano Veloso, persino la blueswoman Bonnie Raitt.
Al fianco di Miriam Makeba e Angelique Kidjo è diventata, agli occhi del mondo, la personificazione di mama Africa. Ma non ne sentiva la pressione: «Sono una donna di carattere, ma tutto quello che sono stata chiamata e che ci si aspetta da me, non so se è quello che sono veramente. Io sono quel che sono. Sono Cesària Evora».
P.S. I suoi concerti sono tutti su YouTube, spesso per intero. Vi lascio quattro versioni insieme di “Sodade”: da sola, con il grande amico l’angolano Bonga, con la splendida Mariza e Dulce Pontes, con Marisa Monte.
Sodade di Cesària.
72 (continua). Qui le altre puntate.