Sceso dal treno sento subito l’aria diversa di questa città diversa dalla mia (ho una città mia?). Nessuna stazione è uguale all’altra (frasi così me le potrei risparmiare ma mi perseguiterebbe a lungo la loro nenia da risparmiate che invocano la gogna del rigo; accartoccio il foglio sul quale l’ho pensata e lo getto nel primo cestino lungo la banchina), nemmeno i passeggeri che scendono sono esattamente gli stessi che sono partiti (anche questo foglio fa la fine del precedente, ma in un altro cestino già colmo perché i cestini delle stazioni traboccano di frasi così; la mia resta in bilico, magari cadrà preda di qualche citazionista). Anche ogni arrivo è subito preda del passato, così come la partenza fu preda dell’avvenire (e con questa abbiamo contribuito all’accumulo di spazzatura leggera).
La ragazza mi aspetta col cartello in mano, un foglio A4 con sopra scritto il mio nome. Indicando il foglio dico: sono io. Lei mi dice: lo so. Ha scritto il mio nome sul foglio perché io riconoscessi lei. Avrà visto mie foto rubate e pezzi di filmati, pure rubati, di qualche mia lettura in pubblico. Sono qui per lo stesso motivo, leggere in pubblico. Cosa leggo? Tutto. Per me non è importante quello che leggo.
L’importante (non poi così importante, ma lo dico per portare la frase a destinazione, anch’essa come il treno, muso a muso coi respingenti del binario morto) è che legga. Così come, per periodi più o meno lunghi, è ugualmente importante non leggere.
La macchina è fuori, mi dice. Sembra niente. È ovvio che la macchina sia fuori, eppure questa è la frase più sensata che ascolto da quando sono partito. C’è in essa quel senso di realtà ossia di quello che potrà succedere realmente. La macchina è fuori, la raggiungiamo. C’è anche l’autista. Anche lui fuori, fuori della macchina, fuma. Fa un’ultima tirata di sigaretta, la getta vedendoci, la lascia cadere quando siamo più vicini, come scansasse una mosca, con due dita, di lato, alla sua destra, apre il portabagagli per la mia borsa a tracolla, quasi una valigia floscia che acquista volume riempiendola, non tanto grande, quanto dal gomito al polso, o poco più. Entriamo in macchina. Io dietro, lei davanti.
Lei dice all’autista, che ha avviato il motore: no, aspetti, vado dietro, posso? Vado dietro lo dice all’autista, posso lo chiede a me, un quarto di giro della sua testa sul collo in una frase sola. Non rispondo a parole ma a gesti, apro la mano come una porta, il palmo rivolto a lei, l’avambraccio ruota sui cardini del gomito, finché il dorso della mano quasi tocca lo schienale del sedile. Ho detto, sì, come no, ma certo, c’è tutto lo spazio. Apre, chiude, apre e richiude portiere, si siede accanto a me, la ragazza. La macchina si muove.
Parliamo, credo, di tutto. Quando il tutto finisce, parliamo della lettura. Una delle mie solite riscritture. Non leggo mai niente di completamente mio, anche se quello che riscrivo per leggerlo lo è completamente. Ma posso dire di non leggere niente di mio. Mie sono solo le letture con parole mie, ma le storielle e le vite non sono roba mia.
Storielle e vite non le uso, mi arrivano già usurate da quando furono scritte o furono vissute. Appaio in trasparenza dietro i tessuti lisi che mostrano la corda. Oltre quelle grate sembro un confessore e un confessato, un ragno al di là del suo velo ragnato, e anche, durante qualche pausa, una carmelitana scalza oltre la lastra bucata di un parlatorio (questa mi piace assai, divento un’ombra che tace: uno dei passaggi più difficili del mio repertorio).
Dove si logora maggiormente il tessuto? Ai gomiti, alle ginocchia, sotto le ascelle, nei punti di attrito. Mi occupo di queste zone umane con istinto animale, lo stesso istinto, sia mio sia delle zone. Sono i punti nei quali il corpo fa il suo gioco, un gioco che sfugge alla comprensione intellettuale, che è così scarsa nella presa in un tutt’uno di quello che afferriamo con un colpo d’occhio.
Ah, è bellissimo quando parliamo e parliamo e invece il corpo freme per tutt’altro e usura tessuti perché vorrebbe renderli addirittura cadenti, quando mettiamo in campo (una savana, forse?) significati per significati ma il vero significato è uno, è il corpo a corpo.
Ora è lei la leonessa e io la gazzella isolata, poi io il leone e la gazzella è lei, poi ci si rivolta in queste pelli di animale in una confusione di manti e di sollevamento di polvere che ci avvolge, la solita polvere dei soliti discorsi. Non ci si sbrana forse comunque? Non sono forse brandelli le frasi? Non si procede forse per strappi retorici, per tagli, per cesure, per ferite nel costrutto? E per guaiti, ruggiti, squittii, inflessioni laceranti o lacerate? E cadenze e modulazioni di versi e versetti e anche versacci e gemiti e uggiolii, e ululati anche, spesso elevando le nostre ragioni fino alla luna? E allora, cosa la stiamo a fare tanto lunga quando la distanza tra due corpi è tanto breve?
È come la musica degli strumenti, e noi lo siamo, a corde, a tastiera, a pistoni, a soffi, a tocchi, a pizzichi, a rullate, a piattate combacianti, a arco (quell’arco vertebrale), nel momento dell’esecuzione dopo il momento della partitura, messa alla prova su quella tastiera muta che spesso è il discorso, nonostante le tante parole e parole e parole, e le note, le note, le note di tra i righi degli spartiti come lentiggini, pori, piccoli nèi dietro un tessuto consunto.