Racconto edificante Tutto quello che è vero diventa vero dopo

Le emozioni spesso sono complicate da codificare e ognuno le vive a modo suo. Così che le confessioni che sembrano storie di fantasia sono le migliori perché chi ascolta (e legge) crede davvero che siano soltanto inventate

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Le confessioni che sembrano racconti sono le migliori perché chi legge crede che siano racconti. Solo lei può chiedermi: perché scrivi queste nostre cose vere? Perché qualcosa devo scrivere, ecco perché.

Stava leggendo un libro seduta sul muretto dell’abbeveratoio che non era solo un abbeveratoio, lo era anche, era una antica vasca che raccoglieva acqua sorgiva alla fine dello sterrato tra i campi di tabacco da una parte e di grano dall’altra, bei campi in declivio, curvi come schiene al lavoro sui campi, collinari, un terreno in discesa come un arco di cerchio dolce e leggero, e qua, in basso, dove il terreno torna piano, ecco la vasca, che è un po’ più grande di un letto a due piazze. Intorno crescevano cocomeri e meloni gialli e bianchi. Una valletta arcadica, interrotta più avanti da un boschetto come da un confine idilliaco. Tutto era in crescita, il grano, il tabacco, i cocomeri, i meloni, il bosco folto, perché era estate piena. E pieno giorno nell’estate piena.

Lei, seduta sul bordo della vasca, leggeva un libro. Con la matita oscillante tra due dita teneva un ritmo di lettura o di impazienza e lo batteva sulle pagine aperte e a tratti sottolineava o appuntava qualcosa. Sollevava, credo ogni quattro cinque righe, la testa aspirando il sottile filo di una qualche fumosa filosofia o di sentimenti svaporanti che tendevano a volatilizzarsi. Guardava intorno come se sorridesse per l’ingenuità delle foglie di esporsi al pesante calore del sole che le scaldava e le snervava. Quasi commiserava, inclinando la testa e osservandole, alcune pietre sparse, per la loro insensibilità. Insensibilità a cosa? E l’erba? L’erba in certi punti più lontani era umiliata dalla siccità alla repressione ascetica di ogni colore se non il giallastro pallido di una pelle deperita.

Detestava lei forse come me gli anacoreti? Considerava lei forse come me la solitudine una goduria che non ha nulla a che vedere con l’eremitaggio?

La stavo spiando, immerso tra le foglie del boschetto umide e scure. Spiavo per caso, non per necessità, perché ero disteso sotto quelle foglie e sull’erba al fresco già prima che lei arrivasse. Avevo dormito un quarto d’ora o avevo solo chiuso gli occhi. Ne aprii uno: lo sguardo, sbattendo palpebre e ciglia come una farfalla le ali, andò di tra la foglie là su lei seduta sul bordo della vasca e sotto il sole.

Forse lei sentì il mio sguardo posarsi su qualche parte scoperta della sua pelle. Spinse il mento in alto, puntato verso un raggio, chiuse gli occhi, allungò il collo, mosse le braccia, in una mano il libro, nell’altra la matita. Sollevò il libro in alto oltre la testa come a fare del libro un ombrello, il braccio obliquo come il raggio. Strinse nel pugno dell’altra mano la matita e distese il braccio obliquo ma verso il basso dietro di sé sul bordo della vasca come il prolungamento dell’altro braccio nella direzione opposta. La linea di tutte e due le braccia la percorse come una diagonale che attraversa un corpo solido o, da polo a polo, l’asse un mappamondo.

Poi portò anche l’altro braccio, quello del libro, in basso dietro di sé. I seni premettero contro la maglietta, quella che si direbbe una maglietta fresca, leggerissima, i capezzoli non riuscirono a forarla ma ci stavano provando. Le braccia divaricate formarono un triangolo isoscele che aveva nel mento il suo vertice. Poggiò tutte e due le mani sul bordo dell’abbeveratoio, i pugni stretti, uno intorno alla matita, l’altro intorno al bordo del libro chiuso. Non vedo se ha inserito un dito in mezzo alle pagine, credo di sì. Si separarono le sue ginocchia fino ad allora accostate, divaricò le gambe e le allungò, puntate sui talloni, vidi i sandali e i suoi piedi che ora oscillavano come metronomi dal tempo lento. Con gli occhi chiusi prendeva sfacciatamente il sole. 

Uscii dall’ombra come una minaccia. Portai con me l’ombra e contrastando il sole la posi addosso a lei. La mia ombra era fresca di bosco, e lei non sentì più il calore diretto. Non vide più il rosso nelle sue palpebre chiuse e allora le aprì.

Tu scrivi nei libri? Lo chiese lei a me.

Capii che era un’attrice e sapeva che l’avevo osservata e non mi aveva preso per uno scrittore ossia per uno qualsiasi perché nella domanda c’erano due interrogativi e una piccola pausa che solo lei e io nella controra e in mezzo alle cicale avvertivamo. Disse precisamente: tu scrivi?… nei libri? Voleva sapere se con la penna, se con la matita, leggendo scrivevo i miei pensieri, le osservazioni, o sottolineavo frasi sulle pagine dei libri. Avevo capito. Dissi no, non sono uno scrittore nei libri, no.

No…

Ripeté il mio no, esattamente il mio ma con in più una leggera parodia eroica, e sorrise. Mi guardava con quelle palpebre arricciate come belle foglie secche, arricciate dal sole alle mie spalle che certamente circondava abbagliante la mia ombra, quelle palpebre arse dalla luce e dal calore. Anche il naso era arricciato come un frutto geloso che si stringe intorno alla sua dolcezza. Pensavo così perché lei capisse o credesse che ero tutto intriso di natura, pensavo come un cespuglio, come un fogliame verde e fresco. Disse quel no, sorrise. O forse no, forse la troppa luce intorno alla mia ombra le tendeva le labbra verso le guance anch’esse arricciate. Sembrava crepitare, era assai bella.

Volevo dire…

Non disse altro, la frase seguente fu fiaccata dal caldo perché io feci un passo a lato e la inondai di luce. Lei strinse di più le palpebre e sollevò di più il mento come se annusasse il sole. Quando la voglia di parlare viene meno è molto meglio di quando si ha voglia di parlare, ma bisogna comprendersi, bisogna essere in due a non dire volentieri nulla.

Mi sedetti accanto a lei, portai anch’io le braccia all’indietro e le mani sul bordo dell’abbeveratoio, sul limite verso l’acqua, stesi le gambe, avevo il bordo nel palmo delle mani, il bordo era scivoloso, la mani scivolarono e caddi all’indietro nell’acqua che si dilatò sotto la mia schiena spruzzando. Mi sono varato, pensai, ma non dissi questa spiritosaggine perché sarebbe stata fuori luogo, era tutto più serio, quasi severo, non era un risibile incidente.

L’acqua era fresca perché era sorgiva, sgorgava da una bocchetta, in un’altra bocchetta opposta e poco sotto il bordo di uno dei lati corti defluiva. La vasca era profonda mezzo braccio. Con le mani aperte e premute sul fondo mi tenevo benissimo a galla, orizzontale, dalla cinta alla testa, per il resto ero come rimasto seduto sul bordo.

Non feci nessuna finta di annegamento, restai così, preda del fresco, un po’ inebriato. Le nostre reazioni, quando la situazione ci pare imbarazzante, sono sempre finte e enfatiche. Non stavolta, nemmeno mi venne da ridere. Stavo così, guardavo il cielo che non mi imbarazzava.

Lei si voltò a guardare me, anche lei senza ridere, considerava come stavano le cose. Considerò per un tempo anche lungo, un tempo che durava, un tempo anche godibile, un tempo che divenne, non so come dirlo, anzi sì, divenne il nostro tempo. Restammo un po’ così, come dipinti, forse disegnati come una illustrazione in un libro tra le parole precedenti e le seguenti.

Con la guancia sulla sua spalla mi guardava. Poi mi chiese: ti tieni con una mano sola? La stessa mia parola: mi tengo a galla, sì. Con una mano sola? Dissi sì e sollevai dall’acqua la mano destra, quella verso la sua parte, per dimostraglielo. Allora mettila sulla mia schiena, reggimi, mi disse. Lo feci, le posai la mano aperta sulla schiena, lei sentì il fresco, io sentii cinque vertebre, lei ebbe un brivido e scattò un po’ in avanti, poi tornò sulla mia mano, la sentii pesare, voleva calare in acqua, disse ancora: reggimi. E calò all’indietro nell’acqua, come me prima ma senza spruzzi, lentamente perché la reggevo.

Capimmo che potevamo restare a galla anche solo puntando i gomiti sul fondo, stringendo l’una nell’altra le mani dalla parte dei fianchi accostati, la sua mano sinistra nella mia destra. Calata nell’acqua, distesa come me, mi aveva detto: puoi togliere la mano adesso. Togliendola percorsi col dorso della mia mano il suo braccio fino alla sua mano, e l’una strinse l’altra e l’altra l’una. Il libro e la matita erano sul bordo, all’asciutto.

Ora, la mia vita può durare quanto vuole, questo ricordo dura di più. Lo pensammo? Non allora. Non percepiamo mai di essere in un ricordo, mai.

Va detto che la vasca è vera, veri i campi dalla forma arrotondata e in declivio, veri il grano e il tabacco, il boschetto, i cocomeri i meloni, l’estate, le foglie, l’erba verde e l’erba giallognola, vera lei e vero io, vera la collina a digradare fin qui dove noi veramente siamo. Fu vera l’acqua. Perché non dovrebbe essere vero anche il resto?

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