Sto leggendo in pubblico, quindi sto già trasgredendo, sto leggendo la parte che precede questa che state leggendo, e anche questa è una bella trasgressione e un bel disorientamento, anche per me. Finito di leggere, salirà alta la canzone. Sono alle ultime righe, sto dicendo che chiunque morirà da poeta. È cosa bella che può far piacere (a me non tanto), è cosa consolante. Ci credo? No. Ma chi sono io per confutare le mie parole?
Comunque, si sa, da poeta non si vive, da poeta si muore. Così chiunque morirà da poeta. Poeta non è né maschile né femminile, credo che non sia di nessun genere, come la morte è una parola che non guarda in faccia a nessuno.
Ecco perché Becaud: quella canzone, “Quand il est mort, le poéte”, le parole di Louis Amade. È inutile che adesso andiate a cercarla in rete, certo che c’è ma è inutile. Cogliereste il frutto della ricerca, un frutto al quale è mancato il fiore, e il campo non sarebbe tutto blu di mirtilli ma blu del colore degli indici dei contenuti rilevanti che, se cliccato, diventa ciclamino.
Cercatela pure se volete, la canzone, andate a fare la sua conoscenza, se sono fiori fioriranno e frutteranno in un vostro futuro, non ora per favore. Non facciamo i competenti. Io, oltre quel che dico, non so altro, per esempio. Infatti vado a capo, e questo paragrafo non lo proseguo.
Il mondo si divide sempre in due. Qui si divide tra chi sa di che si parla e chi non lo sa. Conta qualcosa la divisione? Non conta niente. Solo a restare meno di prima, a ridurre il numero. Il piacere di sfrondare chi ti legge è superiore a quello di aggiungere petulanze da accumulo senza passione.
Finché rimarremo tu e io: pensa se fosse questa l’ambizione dello scrivere, andare avanti, avanti, avanti a parole, cercando di stremare, di addormentare, di innervosire, di far sbattere il tuo libro al muro, di farlo dimenticare come inutile su una bitta al molo, e un colpo di vento lo fa volare a pagine aperte in mare, o un gabbiano lo fraintende come pezzo di pizza a libretto, lo porta via nel becco e, restio a pasti non masticabili di parole e parole, lo lascia, sempre in mare, cadere. O onda, o mia lettrice.
Le ho pensate tutte, sono stato sperimentale anche per questo: per rimanere tu e io soli in quel punto del libro in cui era scritto… in cui era scritto cosa? Che addirittura accadesse di rimanere noi due soli, questo era scritto.
Ho finito di leggere, la canzone invade il luogo.
La ragazza avrà avuto la metà dei miei anni. Snella, indossava qualcosa di spigato, un chiaro e scuro tutto tratti obliqui e vertici, le calze nere, i mocassini pure neri con uno spuntèrbo (cercate pure questa) carezzevole sul dorso del piede (la mia mano lo invidia), anche i capelli neri, lunghi, raccolti a coda, a unica onda. Finito di leggere, scendo dal palchetto, vado a cercare da bere facendo segno con l’indice che arrotola l’aria: dopo, dopo, ne parliamo dopo (anzi non ne parliamo proprio. Ma con chi? Ma di che, poi?).
La ragazza mi appare di fronte, tocca con le sue dita il mio dito che arrotola l’aria, ferma il vortice, lo stringe nel mazzetto delle sue dita, poi si prende tutta la mano. Con l’altra mano cerca l’altra mia mano guardandomi negli occhi, la trova penzoloni, sento sulla mia coscia le sue dita come piccoli rostri gentili di una scavatrice, stringe la mia mano, la mia seconda mano. E così ha tutt’e due le mie mani nelle sue. Distende le sue braccia parallele davanti a sé e, a traino, le mie, indietreggia come se volesse guardarmi dalla distanza di due braccia.
Ha questo modo di sorridere che sarà per me indimenticabile (fino a quando, fino a quando?): sorride in crescendo, dal tenue fino all’esteso, fino a che le labbra si discostano e appaiono i denti, poi richiude il sorriso protendendo le labbra e stringendole come avesse appena bevuto da una fontanella e trattenesse l’acqua in bocca, poi le distende e sembra continuare a sorridere non con le labbra ma con gli zigomi, con le tempie, col naso, le narici in fremito, con tutto il viso. Con gli occhi no. Gli occhi, lei sa, non sorridono, come invece si dice. Gli occhi osservano, scrutano, anche indagano come è colto il sorriso dagli altri occhi.
Anche come è colto il pianto, sì, gli occhi scrutano, o la rabbia, o l’inquietudine, o il desiderio, ma in questi casi, più animati e meno sereni, l’osservazione è tra le ciglia, anche sghemba, un poco obliqua come da dietro una grata che non si sa chi imprigioni, se l’uno o l’altro viso. Il sorriso invece è colto di tra le palpebre solo leggermente, leggermente socchiuse, lo sguardo in agguato a una preda tenera.
Poi lei portò sul mio petto le sue mani e le mie strette tra le sue, poi sul suo petto portò le mie, sempre strette tra le sue, poi aprì le braccia come quei bracci a compasso che distendono le tende pensili e così si riduce la distanza tra noi, spinti l’una verso l’altro da questa distensione.
Lasciò le mie mani e io rimasi con le braccia aperte, portò le sue ai lati del mio viso, le calcò sulle guance come se posasse un vaso sul mio collo, sentii la mia testa vacillare ma non la sentii cadere, mi fidai di lei, l’aveva ben sistemata. Dal viso sentii le sue mani scivolare fino ai risvolti della mia giacca floscia, li strinse in pugno, mi scosse un poco, la mia testa traballò, non cadde perché lei accostò la sua sul lato destro del mio viso, sentii la sua tempia accanto alla mia e la sua voce all’orecchio: “Rimaniamo soli, tu e io”.
Come presagio e come brano di uscita dalla lettura avevo scelto, l’ho detto, “Quand il est mort, le poéte”. La canzone stava andando, alta nel luogo (ho già detto pure questo, ho detto tutto), tutte le voci facevano il coretto. Cantate quel che dico, diceva la canzone, cantando vi distrarrete da quel che dico. Solo io sentii il sussurro di lei al mio orecchio: “Stanno cantando la nostra canzone” (questa frase prima o poi volevo scriverla, anche se non è mia), l’unica canzone al mondo che mi fa piangere, e mi fa piangere perché è allegra.
Signore e signori, addio.