Con l’annuncio formale del 2021 come “Anno internazionale dell’economia creativa per lo sviluppo sostenibile”, le Nazioni Unite hanno riconosciuto all’economia creativa lo status di forza motrice per costruire un futuro in grado di rispettare l’ambiente, i lavoratori, i principi fondamentali della democrazia.
La decisione era stata presa già il 19 dicembre del 2019, con la risoluzione poi adottata a novembre dell’anno successivo, in piena pandemia. Ma adesso più che mai – dopo un anno segnato dal Covid19 – quella risoluzione sembra una decisione particolarmente attuale, necessaria, in un momento in cui c’è bisogno di soluzioni creative per le sfide del presente: il pensiero creativo deve essere uno strumento prioritario per dare nuovo slancio all’innovazione, nella risoluzione dei problemi, per guidarci fuori dalla recessione che ha colpito tutto il mondo.
Quello di economia creativa è un concetto in continua evoluzione, che si basa sull’interazione tra creatività e idee, proprietà intellettuale, conoscenza e tecnologia. Fin dalla sua prima definizione – introdotta nel 2000 – la locuzione “economia creativa” è servita a indicare la trasformazione della nostra società da un’economia industriale a una basata sulle idee.
Nel saggio del 2001, “The Creative Economy: How People Make Money from Ideas”, John Howkins indicava l’economia creativa come un nuovo modo di pensare, in grado di rivitalizzare il settore manifatturiero, quello dei servizi, quello del commercio al dettaglio e ovviamente l’intrattenimento.
Nel 2004 l’economia creativa è entrata ufficialmente nell’agenda dell’economia e dello sviluppo mondiale dell’Onu, durante l’undicesima sessione della Conferenza ministeriale delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad XI) a San Paolo, in Brasile: riconoscimento che il settore stava assumendo un’importanza sempre maggiore. Non a caso il 21 aprile di ogni anno si celebra la Giornata mondiale della creatività e dell’innovazione, voluta proprio dalle Nazioni Unite.
L’economia creativa, insomma, è quell’insieme di attività che sostengono l’imprenditoria, stimolano l’innovazione e avvicinano le persone, a partire da giovani e donne, preservando e promuovendo il patrimonio culturale e la diversità. È per questo che viene considerata un settore capace di creare equità e inclusione, ed è ancora più importante in un mondo in cui il dibattito politico e culturale è sempre più polarizzato, più estremizzato, più urlato e meno ragionato.
«Le industrie creative sono fondamentali per l’agenda dello sviluppo sostenibile. Stimolano l’innovazione e la diversificazione, sono un fattore importante nel fiorente settore dei servizi, supportano l’imprenditorialità e contribuiscono alla diversità culturale», ha detto Isabelle Durant, vice segretario generale dell’Unctad (la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo).
L’economia creativa rappresenta circa il 3% del Pil globale e spazia dallo spettacolo all’editoria, dalla pubblicità all’architettura, dal design alla moda, dal cinema alla fotografia, fino alla musica, ai software, ai giochi per computer, e tv e radio.
È un comparto in rapida espansione, che cresce ogni anno di un valore vicino al 10% nei Paesi in via di sviluppo. Tanto che, secondo recenti previsioni, rappresenterà circa il 10% del Pil globale nei prossimi anni. Allo stesso modo, il valore del mercato globale dei beni creativi è raddoppiato da 208 miliardi di dollari nel 2002 a 509 miliardi di dollari nel 2015, con un aumento dei tassi di crescita delle esportazioni di oltre il 7% in 13 anni.
E ovviamente un settore in espansione è anche foriero di nuovi posti di lavoro, nuovi guadagni, nuovi segmenti di mercato: qui lavorano più di 30 milioni di persone in tutto il mondo, per lo più giovani.
La crescita del comparto però non lo ha reso immune alle crisi globali. Anzi, nell’ultimo anno le industrie creative sono state gravemente colpite dalla pandemia: il Covid-19 ha colpito qui più che in molti altri mercati, basti pensare che solo l’industria cinematografica ha perso circa 7 miliardi di dollari di entrate nel 2020.
«Quando la risoluzione è stata negoziata e approvata, nessuno avrebbe potuto prevedere una pandemia», ha detto Marisa Henderson, responsabile del programma di economia creativa dell’Unctad. «Ma oggi più che mai abbiamo bisogno di pensiero creativo, innovazione e risoluzione dei problemi per immaginare noi stessi fuori dalle sfide di disuguaglianza e vulnerabilità che affrontiamo quotidianamente».
Proprio in questa fase di transizione – andando verso una riapertura a pieno regime di tutte le attività – l’industria creativa ha l’opportunità di reimmaginarsi, di ridefinire i propri parametri, facendo da apripista per gli altri settori dell’economia nel percorso verso un futuro più equo, sostenibile, inclusivo.
In che modo, dunque, è possibile modellare il settore dell’economia creativa? Una prima soluzione promossa dall’Onu è l’impact investing, cioè investimento a impatto: un tipo di impegno che non guarda solo al ritorno economico, ma vuole generare un impatto sociale e ambientale, positivo e misurabile.
Significa quindi dare alle aziende del settore la possibilità di misurare i propri standard in termini di sicurezza, rispetto della dignità dei lavoratori, diversità, equità, attenzione per la comunità locale e per l’ambiente.
Ma non solo. Sir Ronald Cohen, numero uno del Global Steering Group for Impact Investment, scrive nel report “Creativity, Culture & Capital” – stilato proprio per focalizzare l’attenzione su nuovi modi per finanziare la nostra economia creativa – che è indispensabile «creare una visione d’insieme che valorizzi gli investimenti che fluiscono nell’industria creativa, che oggi invece spesso passano inosservati anche se hanno un grande impatto: magari perché sono classificati come semplici prestiti per piccole imprese, o microfinanziamenti, o perché sono quantitativamente investimenti piccoli».
Allora il primo passo per riconoscere davvero all’economia creativa il suo status di comparto fondamentale per lo sviluppo sostenibile è l’impegno da parte di tutti gli attori in campo – a partire dai governi nazionali – a incentivare finanziamenti privati e pubblici che non si limitatino a ridurre gli effetti negativi sulla collettività, ma abbiano come primo obiettivo quello di generare un cambiamento diretto e concreto sulla società e l’ambiente.