Ombre sullo HudsonIsaac Singer ci fa scoprire l’ebreo che è in noi

Adelphi riscopre un romanzo nel quale il geniale premio Nobel descrive un’accozzaglia di personaggi dolenti e scombinati scampati alla Shoah e approdati in modi più o meno rocamboleschi nella Manhattan del dopoguerra. Le 600 pagine di questo frizzante poema sinfonico raccontano un microcosmo nel quale immergersi senza paura. Perché tutti abbiamo assimilato almeno una scheggia della cultura ebraica, anche chi crede di esserne alieno

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C’è il ricco finanziere Boris Makaver, una specie di nonno del Wolf of Wall Street, che giustifica le speculazioni in Borsa con argomenti neoliberisti nobilitati da citazioni bibliche: «Gli affari bisogna pur farli. Quando re Salomone lodò i meriti della donna virtuosa, disse: “Ella è come le navi dei mercanti, fa venire il suo pane da lontano”. Il mondo non può sopravvivere senza commercio. Tutti i malvagi, siano bolscevichi o nazisti, sia cancellato il loro ricordo, per prima cosa cercano di abolire il commercio. Anche Abramo era un mercante». C’è sua figlia Anna, che gli amareggia la vita passando da un matrimonio infelice all’altro, è in cura per depressione e dopo due errori sta per compierne un terzo, il più grave di tutti. E c’è il nipote Herman, fervente comunista, convinto che il capitale «tenda a concentrarsi sempre più in poche mani». C’è il professor Schrage, ex-matematico ora adepto della parapsicologia, che non risponde al telefono, detesta la luce elettrica perché ottunde il sesto senso e considera la scienza una buffonata.

E soprattutto c’è lui, Hertz Grein, il protagonista, uomo dilaniato senza sosta dalle passioni e dai sensi di colpa, che non se la sente di diventare un ebreo osservante, di «rispettare tutte le innumerevoli restrizioni che rabbini e commentatori avevano accumulato nel corso delle generazioni» e resta in balia di quella che la Kabbalah chiama «angustia spirituale». In pratica, passa da un letto all’altro, dividendosi tra il porto sicuro della moglie Leah, che sopporta in silenzio le sue infedeltà, e la furia erotica di Esther, sua amante fissa da un decennio, per poi scappare in Florida con la figlia di Makaver, a sua volta sposata (con tale Stanislaw Luria, vedovo polacco di vent’anni più vecchio, che non avendo nemmeno superato l’esame da avvocato, vive alle spalle della moglie e del suocero, ma legge Schopenhauer meditando il suicidio). 

È un’accozzaglia di personaggi dolenti e scombinati, e perciò fin troppo umani, quella che ci apparecchia la geniale ironia del premio Nobel Isaac Bashevis Singer in Ombre sullo Hudson (Adelphi). Cosa li accomuna? Il fatto di essere tutti ebrei scampati alla Shoah e approdati in modi più o meno rocamboleschi nella febbrile Manhattan del dopoguerra. Se non vi fate intimidire dalla mole (più di 600 pagine) e vi abbandonate senza opporre resistenza al fluire di questo maestoso e frizzante poema sinfonico, non riuscirete più a staccarvi, proprio come vi capita con la vostra serie tv preferita. Perché di una serie si tratta, essendo comparso a puntate sul Forverts, periodico newyorchese in lingua yiddish, tra il 1957 e il ’58 (l’edizione inglese è uscita solo quarant’anni dopo). Dobbiamo ringraziare Elisabetta Zevi per averlo finalmente sdoganato in Italia nell’ottima traduzione di Valentina Parisi. E siamo sicuri che qualche regista ne ricaverà presto una fiction televisiva di culto, tipo Shtisel o Unorthodox

Nel libro, l’anima inquieta di Hertz Grein si interroga incessantemente sull’identità ebraica e sul futuro stato d’Israele. «Che tipo di ebreo si sarebbe sviluppato in Terra Santa? Quali ebrei avrebbe potuto chiamare fratelli? Gli stalinisti che stavano infangando la storia ebraica? I terroristi che facevano esplodere bombe negli alberghi? I profughi tedeschi che passavano il tempo nei caffè di Tel Aviv preparandosi già a tornare in Germania?». E ogni volta arriva alla stessa conclusione: «Eliminata la fede, agli ebrei moderni rimaneva ben poco di ebraico, e ancor meno qualcosa che li tenesse uniti».

Le nuove generazioni che crescono in America si allontanano sempre più dai valori tradizionali: «La Torah non gli interessa, perché non è in tono con il baseball e con quella schifezza che ascoltano tutta la notte alla radio». Suo figlio incarna questa metamorfosi anche nell’aspetto: alto, biondo, occhi azzurri, sembra un tedesco o uno scandinavo. «Né il volto né il portamento tradivano minimamente la sua appartenenza a una stirpe di talmudisti e di rabbini». Per giunta è simpatizzante comunista e si fidanza con una ragazza non ebrea dell’Oregon. 

Cosa è successo agli ebrei? Si domanda Grein. «Per tremila anni avevano saputo resistere all’idolatria e adesso erano diventati i principali produttori di Hollywood, i più importanti editori di giornali, i leader comunisti più radicali…A New York, Parigi, Londra, Mosca, ovunque gli ebrei predicavano l’ateismo…e incoraggiavano con fervore le cattive inclinazioni della gente. Adesso si mettevano persino a insegnare ai gentili come godersi i piaceri di questo mondo». 

Ecco il punto: le ombre sullo Hudson non turbano solo gli ebrei. Ci riguardano tutti. E il microcosmo raccontato da Singer è la nostra famiglia. Quei profughi siamo noi. Non c’è bisogno di studiare il Talmud o di parlare yiddish: piaccia o no, l’ebraismo è il marchio di fabbrica del nostro immaginario, dai romanzi di Philip Roth ai film di Steven Spielberg e Woody Allen o alle canzoni di Bob Dylan.

Senza sminuire altre culture, che pure hanno avuto il loro peso, la cultura dominante che abbiamo respirato nel secondo Novecento, quella che ci ha nutrito di utopie rivoluzionarie, di soli nascenti e di pulsioni libertine, ma anche di slanci mistici, di sensi di colpa e di derive nichiliste, la cultura che ci ha fatto ridere, piangere e riflettere, che ha fatto da sfondo e da colonna sonora ai nostri cortei, ai nostri amori, ai nostri lutti e alle nostre speranze è figlia di quella che viene spregiativamente bollata come “lobby ebraica”. E in particolare, della sua colonna newyorchese e americana. Tutti abbiamo assimilato almeno una scheggia di questa cultura, anche chi crede di esserne alieno, o chi rimane preda di pregiudizi antisemiti. 

A noi Netanyahu non piace per niente, così come non ci piacciono i Trump, i Salvini e le Meloni, e in genere nazionalisti e sovranisti di ogni latitudine. Ma cos’hanno in testa quelli che bruciano nelle piazze la bandiera di Israele, rigurgitano odio contro Liliana Segre o George Soros, o ripescano dalla monnezza i falsi Protocolli dei Savi di Sion? Perfino loro, ci insegna Singer, sono un po’ ebrei a propria insaputa. 

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