Il nome George Soros è quasi sinonimo di complotto. Circolano innumerevoli dietrologie che vorrebbero il finanziere americano in capo a cospirazioni di vario genere.
Negli anni è stato accusato di pianificare la “sostituzione etnica” degli europei tramite l’immigrazione sregolata da paesi africani; di fomentare insurrezioni popolari contro i governi di mezzo mondo; di promuovere eutanasia, consumo di droghe leggere e la cosiddetta “ideologia gender”.
O anche di essere il mandante di eventi catastrofici di proporzioni globali: il presidente malese Mahathir Mohamad lo accusò di aver scatenato la crisi finanziaria del 1997/98, che mise in ginocchio le economie delle tigri asiatiche, per poi rettificare qualche anno più tardi. Il numero incomparabilmente alto di complotti che, direttamente o indirettamente, lo tirano in ballo spinge a chiedersi: come e perché è nato il personaggio Soros?
Il vero George Soros nacque come György Schwartz a Budapest nel 1930. Suo padre Tivadar era un avvocato cosmopolita, liberale e internazionalista, che riuscì a salvare tutta la famiglia e altri conoscenti ebrei durante l’occupazione nazista dell’Ungheria (1944/45) e narrò queste peripezie nel memoriale autobiografico “Ballo in maschera a Budapest”. Mutò il nome alla famiglia – e ai figli – per celare le origini ebree.
George lasciò il paese nel 1947, poco prima dell’avvento della dittatura comunista, trasferendosi nel Regno Unito, dove lavorò come fattorino e cameriere in un night club, prima di iscriversi alla London School of Economics. Qui entrò in contatto con il filosofo Karl Popper e le sue riflessioni sulla democrazia liberale, destinato a influenzarlo per il resto della vita.
Nel 1956, anno dell’insurrezione anti-sovietica nella natia Ungheria, si trasferì permanentemente negli Stati Uniti, dedicandosi interamente alla finanza. Nel 1973 lanciò Quantum, l’hedge fund a cui deve la sua fortuna, accumulata soprattutto tramite operazioni finanziarie ciniche e spregiudicate. Come le speculazioni che nel 1992 colpirono la sterlina britannica e la lira italiana, fruttandogli un ricavo di oltre un miliardo di dollari netto e la fama di “uomo che distrusse la Banca d’Inghilterra”. Oggi la sua ricchezza supera gli 8 miliardi di dollari.
Nel frattempo, fin dal 1979, Soros investì percentuali crescenti dei suoi ricavi in attività filantropiche: borse di studio per studenti appartenenti a categorie sociali svantaggiate (come i neri in Sudafrica) e supporto materiale a fazioni dissidenti in paesi comunisti, dall’Europa centrale alla Cina.
Terminata la Guerra fredda, la sua azione si intensificò: nel 1991 inaugurò a Budapest la Central European University, che divenne in breve tempo uno degli atenei più prestigiosi dell’Europa centro-orientale, e due anni più tardi fondò la Open Society Foundation, che già nel nome omaggiava direttamente il suo maestro, quel Popper teorico della “società aperta” e fustigatore delle pulsioni totalitarie di qualunque colore.
L’ideologia perseguita da Soros, più volte espressa esaustivamente (come in questa intervista del 2009 al Financial Times), è profondamente radicata nella sua biografia.
Avendo vissuto sulla propria pelle la perdita di diritti civili e politici come membro ritenuto “alieno” dalla società in cui viveva all’epoca (un ebreo nell’Ungheria autocratica, antisemita e filo-nazista del maresciallo Miklós Horthy), Soros si è da sempre impegnato a promuovere una forma di cittadinanza globale e post-nazionale, che garantisca protezione, dignità, diritti e tutele anche a chi non appartiene al ceppo maggioritario di una data comunità o ne è tenuto ai margini dal potere politico.
Da perseguimento di questa finalità origina, coerentemente, la sua azione a favore di rifugiati, minoranze nazionali, individui Lgbt e dissidenti politici. Individui che, a vario titolo e per varia ragione, si trovano in una posizione di inferiorità rispetto alle maggioranze con cui devono interagire.
Tuttavia, in parallelo alla sua pervasiva azione filantropica, cresceva l’esposizione mediatica di Soros e fiorivano dunque – specialmente nei paesi post-comunisti teatro delle sue operazioni – teorie complottiste al suo riguardo.
Recentemente, il portale ungherese Atlaszo ne ha riassunto le principali in una timeline: scorrendo i nomi dei politici che non hanno saputo resistere al fascino del complotto sorosiano (il croato Franjo Tuđman, lo slovacco Vladimír Mečiar, il bielorusso Alexander Lukashenko), si può già intuire uno dei motivi che rendono Soros così inviso agli ultra-conservatori di qualunque latitudine.
Come riassume Rivista Studio, «l’unione dei complottisti di tutto il mondo contro il nemico comune George Soros è dovuta a una serie di fattori che fanno del suo personaggio un unicum: Soros è impegnato a finanziare proprio ciò che spaventa a tutte le latitudini autocrazie e populisti».
Tra questi fattori, il suo essere di famiglia e cultura ebraiche, che permette ai cospirazionisti di rievocare immediatamente il sempreverde topos del complotto giudaico-massonico, declinabile a seconda del contesto, del dibattito politico e della sensibilità di ciascun paese.
L’antisemitismo – anche e soprattutto quando negato – è un bacino mai prosciugato, a cui possono costantemente attingere complottisti di diversa connotazione ideologica, agli occhi dei quali Soros incarna il Grande Vecchio per antonomasia, la trasposizione post-moderna e aggiornata di Jud Süß o Svengali: ebreo, ricco, influente e addirittura progressista.
Per più di due decenni la tendenza ad attribuirgli le più fantasiose macchinazioni era però rimasta confinata nella galassia dell’ultradestra radicale, venendo solo sporadicamente richiamata da qualche politico alla ricerca di un capro espiatorio a buon mercato.
Come raccontato da Buzzfeed, la situazione inizia a mutare radicalmente nel 2010. Dopo la straripante vittoria di Viktor Orbán alle elezioni di quell’anno in Ungheria, due esperti di comunicazione politica statunitensi (ed ebrei), Arthur Finkelstein e George Eli Birnbaum, ingaggiati dal neo-premier magiaro – su suggerimento dell’amico Benjamin Netanyahu – devono confrontarsi con un problema: in Ungheria di fatto non esiste più un’opposizione capace di contrastare le politiche sempre più illiberali che il partito del loro committente, Fidesz, sta portando avanti.
Urge inventarsi un nemico, un avversario contro cui scagliarsi per distrarre l’opinione pubblica e garantirsi mano libera mentre si sovvertono gradualmente le fragili istituzioni liberali dell’Ungheria post-comunista.
Finkelstein e Birnbaum intuiscono presto come Soros possa essere il candidato ideale: oltre a tutte le caratteristiche richiamate sopra, ha il vantaggio di avere origini ungheresi – sebbene non risieda nel paese da oltre mezzo secolo – e quindi può suonare familiare all’elettorato di Orbán.
Cominciano così le martellanti campagne propagandistiche del governo magiaro, sublimate nei celebri manifesti con lo slogan “Non lasciare che Soros abbia l’ultima risata”. Vidimate da un governo dell’Unione europea, le teorie complottistiche contro Soros acquistano una dimensione semi-ufficiale e iniziano a dilagare anche nella stampa mainstream di altri paesi europei.
Quando poi esplode la “crisi dei rifugiati” nel 2015, il supporto garantito da Soros a varie Ong che operano con rifugiati e richiedenti asilo serve da pretesto per insinuare il dubbio che le ondate di profughi che si riversano in Europa non rappresentino la fuga spontanea da conflitti o povertà di persone disperate, bensì una cospirazione ordita da Soros e attuata dalle associazioni finanziate dalla sua Open society.
Grazie alla creazione del mito di Soros come regista di un’invasione di massa, Orbán ha puntellato il proprio consenso sfruttando quei sentimenti di paranoia, isteria e sgomento che fenomeni così stratificati come i flussi migratori originatisi negli ultimi anni suscitano in popolazioni poco abituate a essere meta (temporanea) di esodi così imponenti.
La demonizzazione di Soros ha così investito anche l’Italia. Come ricostruito da Leonardo Bianchi in “La Gente”, l’inizio della propagazione su larga scala nel nostro paese delle teorie complottiste incentrate sul magnate americano può esser fatta coincidere con una data precisa: il 3 maggio 2017, quando l’allora premier Paolo Gentiloni ricevette Soros a Palazzo Chigi per discutere di investimenti.
La coincidenza che l’incontro avvenisse in un frangente politico in cui si stava dibattendo aspramente del ruolo delle Ong che aiutano i migranti nel Mediterraneo – sull’onda dell’inchiesta aperta dal pm Carmelo Zuccaro, poi risoltasi in un nulla di fatto – aveva alimentato dietrologie aberranti, riprese e rielaborate da esponenti politici dell’opposizione di Lega e Movimento cinque stelle.
La stessa figura di Soros è diventata un meme, che oggi vari attivisti, opinionisti e politici della destra radicale adattano e inseriscono nelle più strampalate teorie cospirazioniste. A inizio luglio, per esempio, un candidato repubblicano in Florida ha sostenuto in un tweet che la cantante Beyoncé non sia realmente afroamericana, bensì italiana (si chiamerebbe Ann Marie Lastrassi) e che sia un agente al soldo di Soros impegnata in un piano per sovvertire gli Stati Uniti tramite il movimento #BlackLivesMatter.
Seguendo una dinamica già vista in altri casi simili, le dettagliate operazioni di debunking di queste teorie, la presa di posizione di alcuni funzionari dell’Unione europea contro le campagne mediatiche finanziate dall’esecutivo ungherese, le proteste delle organizzazioni ebraiche, non sono riuscite ad attenuare sensibilmente la produzione sistematica di ricostruzioni infondate, astruse e incoerenti.
Il complottismo semplifica la realtà, svolgendo in un mondo post-ideologico una funzione simile a quella che svolgeva un tempo l’ideologia: dare senso alla complessità, limare le incongruenze, spianare le contraddizioni.
Come ricordato da Wired, il paradosso più sorprendente del caso Soros è che proprio la massificazione di notizie false che gli attribuiscono intrighi di ogni sorta oscura il dibattito pubblico sul filantrocapitalismo, l’azione benefica intrapresa dai paperoni arricchitisi in gran parte tramite il sistema che poi contestano con le proprie elargizioni liberali.
Imprenditori come Bill Gates che hanno saputo impiegare in maniera eccezionale i meccanismi tipici del capitalismo di mercato e oggi impiegano le proprie energie per raddrizzarne le storture, proiettandosi nella controversa funzione di critici radicali di un mondo che hanno, secondo i critici, in larga parte contribuito a edificare.
La giornalista americana (ed ebrea) Emily Tamkin ha provato ad affrontare questo paradosso in un libro pubblicato lo scorso mese: “The Influence of Soros”, dove l’autrice non si limita a esaminare e decostruire dettagliatamente la genesi dei vari complotti imputati al tycoon, descrivendo con precisione quali e come attori politici ne hanno beneficiato, ma amplia la prospettiva a 360°, analizzando anche la sua effettiva azione filantropica e quali risultati concreti essa abbia realmente conseguito.
Questa pubblicazione tenta di sgombrare il campo dal falso per illuminare i paradossi più viscosi del filantrocapitalismo, invitando a interrogarsi su fino a che punto un multimiliardario possa legittimamente intestarsi battaglie per cambiare la società mondiale e a valutare quanto le sue azioni abbiano minato o invece consolidato un sistema – da lui stesso definito – incompatibile con l’esistenza di società aperte.
Con il processo di concentrazione della ricchezza che va accentuandosi a livello globale, come riconosciuto anche dalla Commissione europea, confrontarsi su queste questioni potrebbe essere più urgente rispetto a cercare di scoprire se Soros sia o meno un rettiliano.