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Dopo lo sblocco dei licenziamentiEcco come ricollocare i lavoratori verso i nuovi settori emergenti



Cristiano Pechy, presidente di Aiso e country manager di Lhh, società del Gruppo Adecco che si occupa di transizioni di carriera, propone di concedere il credito d’imposta alle aziende affinché possano usufruire dei servizi di outplacement privati

(Unsplash)

«Con lo sblocco dei licenziamenti non ci aspettiamo situazioni apocalittiche. Le aziende non sono in attesa di un “firing day”, ma per affrontare la ripartenza e favorire la ricollocazione dei lavoratori dai settori in crisi a quelli in crescita non si può certo aspettare soltanto la riforma delle politiche attive», spiega Cristiano Pechy, presidente dell’Associazione italiana società di outplacement (Aiso) e country manager di Lhh, società del Gruppo Adecco che si occupa di transizioni di carriera. «Stiamo affrontando una guerra in cui il nemico è la disoccupazione e per combatterla dobbiamo usare tutti gli strumenti disponibili. L’outplacement funziona, lo dicono i dati. In diversi Paesi viene ampiamente utilizzato per ricollocare i lavoratori delle aziende in crisi».

Pechy, lei è stato audito in commissione Lavoro alla Camera nell’ambito dell’indagine sulle nuove disuguaglianze prodotte nel mercato del lavoro dalla pandemia. Qual è la situazione che ha illustrato?

Oggi possiamo evidenziare due tipologie di realtà. Da una parte ci sono le aziende che sono state impattate dal Covid, e dall’altra quelle che non sono state impattate o che addirittura sono cresciute in questo periodo. Ma sulle prime bisogna fare un’ulteriore distinzione: quelle per le quali la pandemia ha incrementato criticità che c’erano già prima e quelle che sono state colpite in maniera temporanea, e quindi si riprenderanno con la ripartenza.

Il governo, dopo lo scontro sull’ipotesi di miniproroga del blocco dei licenziamenti, ora ha raggiunto una mediazione. Cosa si aspetta che accada dopo il 30 giugno?

Non ci aspettiamo situazioni apocalittiche, le aziende non sono alla ricerca di un “firing day”. Anche perché i settori colpiti dalla crisi determinata dal Covid continueranno a ricevere sostentamenti in termini di politiche passive e ammortizzatori sociali. Dall’altra parte però ci sono realtà per le quali il Covid ha ingigantito criticità già presenti. Queste imprese, probabilmente, avrebbero effettuato la ristrutturazione prima se fosse stato possibile, invece si trovano a doverla affrontare adesso. Avendo bloccato per un anno e mezzo la possibilità delle aziende di ristrutturarsi, infatti, dovranno farlo tutte nello stesso momento. Le situazioni le conosciamo, perché sono sui tavoli del Mise.

Come avverranno queste riorganizzazioni?

La cosa importante è che avvengano con cognizione di causa e con una programmazione e una ristrutturazione orientata a quello che il mercato oggi può offrire. Ci sono fondi e multinazionali che sono interessate a investire in Italia, bisogna però metterle nelle condizioni di poter effettivamente investire e quindi supportare la transizione di persone da un’azienda a un’altra, da un settore a un altro.

Mi fa un esempio di una transizione che si può realizzare subito?
Nella logistica, ad esempio, si registra un’impennata della domanda di lavoro. Mentre la ristorazione collettiva necessariamente avrà una caduta forte, perché i costi per gestire le mense aumentano e le persone che le utilizzano, a seguito dell’incremento di utilizzo dello smart working, sono di meno. Chi lavora nella ristorazione collettiva potrebbe dunque “transitare” verso la logistica. Lo stesso vale per il trasporto. Ci sono molte competenze affini.

Ma perché è facile a dirsi ma non a farsi?

Perché il nostro è un Paese che protegge il posto di lavoro esistente e non quello che va creato. Certo, questo ha salvato tante vite. Ma nel momento in cui viene imposto il mantenimento del lavoro in un business decrescente non viene favorita la competitività italiana nei confronti dei business crescenti. Non esiste una flessibilità strutturata, armonica, rapida, tra competenze morenti e quelle che vengono richieste maggiormente dal mercato. Questo è un problema. E lo è soprattutto oggi, quando ci sono settori in rapida crescita con una forte domanda di lavoro e altri in profonda crisi.

Cosa sta succedendo nel mercato del lavoro in queste settimane?

Anche solo dando uno sguardo online, possiamo renderci conto che ci sono centinaia di migliaia di richieste di lavoro. Le società di recruitment stanno facendo numeri record, sia in settori diversi rispetto all’epoca precedente la pandemia, sia negli stessi settori ma con applicazioni differenti. Nella pubblicità, ad esempio, con le stazioni e gli aeroporti chiusi, si cercano soprattutto figure per l’advertisement online. Nella grande distribuzione, a febbraio 2020, prima della pandemia, c’erano molte riorganizzazioni. Oggi, invece, non si sente parlare più di esuberi, ma di assunzioni.

L’outplacement servirebbe proprio per queste transizioni. Eppure se ne parla poco.
Oggi viviamo una crisi legata a specifici settori, non una crisi complessiva generalizzata. Dobbiamo “spostare” le persone da un’azienda in crisi a una che ha necessità di personale. Ecco perché non esiste strumento che sia più di attualità. L’outplacement serve a comprendere qual è la domanda di lavoro e a creare percorsi di formazione per la ricollocazione, facendo un’analisi delle competenze per comprendere in quali settori il lavoratore può essere utile. Non ha senso trattenere le persone in un posto di lavoro morente.

Negli altri Paesi europei come funziona?

In Europa ci sono diversi Stati, come Francia, Spagna e Finlandia, che hanno reso obbligatorio l’outplacement quando vengono attuate le riorganizzazioni aziendali. In Francia, per esempio, il centro per l’impiego detiene la governance e, quando c’è una necessità di ristrutturazione, appalta il servizio a un’agenzia per il lavoro privata per l’outplacement. In Spagna l’outplacement è obbligatorio per tutte le riorganizzazioni che impattano più di 50 persone e viene proposto anche ai lavoratori che si accingono ad andare in pensione. In altri Stati, come Germania, Olanda e Inghilterra, non è obbligatorio, ma le aziende lo offrono di default.

Aiso che cosa propone al governo?
L’outplacement oggi è pagato esclusivamente dalle aziende, non dallo Stato. La nostra proposta è quella di dare alle aziende incentivi per utilizzare questi servizi tramite il credito d’imposta. O anche di usare i fondi interprofessionali per finanziarli. Aiso vuole dire: «Sfruttateci! Sfruttate la competenza di queste società che hanno numeri importanti e scalabili». La metodologia funziona. Esiste uno studio che dimostra che più il servizio di outplacement viene utilizzato, più lo Stato risparmia. Se in sei mesi viene ricollocata una persona che percepisce la Naspi, lo Stato risparmia. Stiamo affrontando una guerra dove il nostro nemico è la disoccupazione, dobbiamo usare tutti gli strumenti e le armi a nostra disposizione per combatterla.

Il governo però ha annunciato la riforma delle politiche attive e ci saranno presto nuove assunzioni nei centri per l’impiego. Non basta?

Il progetto di rendere più efficienti i centri per l’impiego con l’assunzione di oltre 11mila nuove persone è giusto e trova certamente il mio giudizio positivo. Tuttavia non può essere operativo oggi e difficilmente lo sarà tra sei mesi, o efficiente tra 18 mesi, perché una macchina del genere necessita di formazione delle persone. L’investimento, che è correttissimo, ha un orizzonte di risultato non prima di due anni. Facciamolo, ma pensiamo a qualcosa che ci possa dare un risultato oggi. E oggi, c’è poco da dire, ma solo il mondo delle agenzie per il lavoro e delle società di outplacement è pronto e deve essere utilizzato subito!

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