Il cosiddetto patent package, cui l’Italia ha aderito ormai qualche anno fa, è un sistema misto, internazionale e comunitario, che istituisce rispettivamente una tutela brevettuale europea con effetto unitario – cioè in vigore per tutti i Paesi membri – e una giurisdizione unificata costituita da un tribunale con una divisione centrale e due sezioni: la prima, con sede a Parigi; le altre – così prevedeva il Trattato – con sedi a Monaco e a Londra.
Il sistema non è ancora in vigore perché manca la ratifica tedesca, una prima volta annullata dall’intervento della Corte costituzionale e tuttora esposta a contestazioni circa la compatibilità del “pacchetto” con il diritto interno e dell’Unione, ma è accreditata l’ipotesi che infine la Germania, titolare della gestione di uno dei tre “bracci” del tribunale unificato, supererà le riserve sulla ratifica.
E a quel punto – potrebbe essere prestissimo – si porrà il problema della ri-allocazione della sede londinese del tribunale, da considerarsi vacante vista l’uscita del Regno Unito dall’Unione.
Pare che il governo italiano si sia finalmente reso conto della necessità di un impegno più concreto nella rivendicazione del buon titolo dell’Italia a reclamare l’assegnazione della sezione del tribunale, appunto quella che ora si è resa disponibile con l’uscita di Londra.
Ragioni di carattere tecnico e giuridico militano a sostegno della candidatura italiana, ma è il profilo politico della questione a dover essere adeguatamente valorizzato se non si vuol sprecare per l’ennesima volta – e questa volta sul fronte importantissimo del governo giurisdizionale in materia di concorrenza e sviluppo tecnologico – l’occasione di vedere il nostro Paese in prima fila nella scelta europea anziché in coda al corteo delle decisioni prese da altri.
Questo nuovo sistema brevettuale, con l’architettura giurisdizionale chiamata a gestirlo, non è quanto di meglio si potesse immaginare, soprattutto per l’evidente sbilancio, da più parti denunciato, a favore del titolare del brevetto.
Ma ormai c’è e ormai l’Italia ne fa parte, e si tratta dunque di decidere se l’Italia debba solo essere la materia passiva di un esperimento ideato da altri e gestito da altri o invece un soggetto che contribuisce a governarlo in ruolo protagonista.
Proprio Londra, che ora apparirebbe fuori dai giochi, ben comprese l’importanza di non subordinarsi al patent package senza l’accortezza di parteciparvi in posizione primaria: e non a caso il Parlamento inglese, con un rapporto del 3 maggio 2012, raccomandava al governo del Regno Unito di ottenere almeno l’assegnazione di una sezione della divisione centrale del tribunale unificato.
Essere uno dei Paesi in cui si disputano le controversie in materia brevettuale, infatti, costituisce non solo motivo di lustro e accreditamento internazionale ma, molto concretamente, una importantissima ragione di richiamo degli investimenti.
Inoltre – e non è elemento secondario – è un decisivo fattore di spinta dell’indotto nei circuiti dei servizi inevitabilmente connessi all’impianto di una sede giudiziaria di quel livello (e ovviamente non ci si riferisce solo ai servizi legali, ma all’alberghiero e alla ristorazione, ai trasporti, alla convegnista e all’attività scientifico-universitaria, insomma al complesso delle competenze che la città ospitante è stimolata a rendere disponibili nell’integrarsi con la nuova istituzione).
L’Italia ha tanto interesse quanto diritto di farsi assegnare la sezione della divisione centrale del tribunale unificato dei brevetti: il rischio che quell’interesse e quel diritto siano frustrati dipende anche, forse soprattutto, da quanto l’Italia mostrerà di considerare importante – e dunque intransigibile – diventare attrice responsabile anziché comparsa muta sulla scena della giurisdizione brevettuale.