È passato un anno e mezzo da quando siamo arrivati sul set del mockumentary di “Contagion”, con un flashback vedo la campana disegnata sul pavimento con lo scotch carta e il coro greco di «te lo dico da architetto, te lo dico da ingegnere, te lo dico da parquettista, levala» dalla chat di classe; il biopic immaginario «Io, Leonarda Cianciulli» con l’igienizzante fatto in casa al posto del sapone, fino ad arrivare a domani con me stessa medesima nella parte di Mammamagnani che corre dietro la novanta per arrivare all’hub vaccinale, l’arnica in frigo, due confezioni di Tachipirina 500 che si sa, se ne prendi due eccetera, a piangere pensando quanto starei bene se non fossi ipocondriaca, quanto starei bene se non fossi me, quanto starei bene se riuscissi a non pensare di morire ogni minuto.
Secondo pensiero dopo la tragedia: la sera del vaccino forse dovrei ordinare una pizza, cosa che faccio solo per il mio compleanno o per bonifici inaspettati (indovinate? Esatto, mai), poi ho pensato che forse non dovrei, non posso vivere nella costante speranza di una giustizia retributiva, la scaramanzia, l’oroscopo dei Pesci, ma poi mi sveglierei con un chilo in più e penserei all’effetto collaterale del vaccino, denuncerei l’Aifa e quindi niente, stiamo umili, stiamo petto di pollo, stiamo normopeso.
Siamo arrivati a oggi, con l’eterno ritorno del regalo alle maestre, presumibilmente faremo adottare loro un albero, un alveare, del lievito madre, e poi c’è la festa al parco per la fine della scuola in un pomeriggio lavorativo, non è cambiato niente, ma è cambiato tutto, mio figlio che mi chiede se i gestori dei gonfiabili si sono vaccinati, amore ma cosa ne so io, ma pensa a tua madre.
Dobbiamo normalizzare la normalità? Lo ammetto, ho passato un anno e mezzo a vivere maternità altrui su Instagram. Cos’altro avrei dovuto fare. Però ho capito di essere un’ottima madre. Instagram è diventato il mio osservatorio Istat, l’Istatgram (vi vedo, ma sto andando in SIAE a depositarlo, spiace), e mi sono resa conto di quanto io sia rimasta centrata in questo anno e mezzo.
Molte mamme che seguo hanno lasciato il lavoro, intendo contrattoni a tempo indeterminato con le ferie pagate da attaccare a maternità facoltative con i giorni dispari da classificare come congedi parentali, per fare le sponsorizzazioni. Forse tra un anno capirò se hanno davvero ragione loro, se chiudersi in casa pur potendo uscire è la vera soluzione. Ma tra dieci anni? Ho visto una ragazza in travaglio fare una adv delle barrette proteiche, e lì ho capito quanto è profondo il mare.
Hanno passato un anno a fare dirette con consulenti e disostruttori di vie aeree, a dire che è durissima essere madri in pandemia, però grazie ai leggings drenanti wow, che fortuna essermi licenziata. Sapete perché non si può più dire niente? Perché i parental coach con un profilo Instagram e lo studio a Nolo ti dicono che un bambino a sei mesi capisce perfettamente quello che dici, quindi non puoi dire mai «non ce la faccio più» o «non dormo», che la creatura capisce, ci rimane male, si sente in colpa, ti farà pagare l’analista, l’avvocato e pure l’osteopata.
Secondo le più usurate correnti gravitazionali al figlio non puoi dire «bravo»: mettiamo caso che ti scoppia un incendio in casa perché i suoi giochi in legno montessoriano prendono fuoco, il bambino spegne il principio di tragedia, ma mica gli puoi dire bravo, eh no cara mamma, gli dici «ok, adesso puoi pulire la cenere».
Sono un’ottima madre, anche se gli dico «bravo» per il solo fatto di esistere. Sgraniamo rosari, stenebriamo scuole, vado a comprare del petto di pollo, è quasi tornata la normalità, andiamo in pace.