Cercasi accordo globale sulla tassazione delle multinazionali. È questo, secondo il Financial Times, l’obiettivo di un gruppo intergovernativo, di stanza a Parigi, composto da diversi stakeholder internazionali e formato per portare avanti la linea stabilita durante l’ultimo G7.
La proposta di riforma fiscale è nata durante l’ultima riunione del Gruppo dei Sette, e secondo le prime bozze consentirebbe a tutti i paesi in cui le aziende più grandi e redditizie del mondo registrano delle vendite di avere i diritti di tassazione su «almeno il 20% del profitto superiore a un margine del 10%». I ministri delle finanze si sono inoltre impegnati a una tassa minima globale di almeno il 15%, paese per paese. Il piano metterebbe pertanto fine al sistema con il quale le grandi multinazionali hanno potuto ridurre il proprio carico fiscale incanalando i profitti verso giurisdizioni a bassa tassazione.
L’accordo finale al momento sembra sulla buona strada. Anche se, sottolinea il quotidiano britannico, «Cina, India, alcuni Paesi dell’Europa orientale e nazioni in via di sviluppo hanno sollevato obiezioni sull’accordo raggiunto dal gruppo delle principali economie del G7».
Nei colloqui in corso gli Stati cercano dei binari condivisi per portare queste nazioni dalla parte delle sette superpotenze, ma secondo alcuni dei soggetti coinvolti nella contrattazione, oltre ai primi ribelli è pronta un’invettiva anti riforma anche da parte di una cordata formata dai paradisi fiscali e i Paesi di investimento come Irlanda, Svizzera e Barbados.
I dettagli delle proposte saranno comunque discussi dai ministri delle finanze del gruppo dei Paesi del G20 in un vertice a Venezia il mese prossimo. «Penso che non fallirà. Ci sono ancora alcune incertezze, ma non siamo lontani da un accordo», ha suggerito una persona coinvolta nella trattativa al Financial Times.
Un’altra persona vicina ai negoziati, che la scorsa settimana era preoccupata per il coinvolgimento della Cina, ha affermato che i segnali sono ora più positivi, ma ha avvertito che i colloqui potrebbero essere l’ultima possibilità per ottenere un accordo globale che fermi decenni di controversie sul regime fiscale globale.
Mentre un funzionario europeo ha sottolineato: «Se non riusciamo a ottenere un accordo al G20, è probabile che dovremmo ricominciare da capo altri 20 anni di contrattazione su questo tema». Mentre un successo sarebbe la dimostrazione «che la diplomazia internazionale sulle questioni più grandi è possibile».
Qual è l’ostacolo più difficile da superare? Ad oggi la Cina. Pechino e molti paesi dell’Europa orientale si lamentano del fatto che l’accordo interromperebbe gli accordi fiscali esistenti che offrono ai produttori incentivi agli investimenti attraverso l’imposta sulle società che ha un’aliquota fiscale effettiva inferiore al minimo globale proposto del 15%.
Anche se non si tratta di paradisi fiscali, il blocco sino-russo è un elemento fondamentale per la chiusura dell’accordo. Perciò i negoziatori stanno cercando di garantire che anche la Cina possa trarne vantaggio, anche se al momento non è stato chiarito la vera posizione della seconda economia mondiale: «Nessuno sa veramente quale sia la posizione cinese. Stanno guadagnando tempo e lasciano aperte tutte le loro opzioni».
Dall’altra parte, i paesi in via di sviluppo non sono contenti del fatto che l’accordo non consentirà loro di aumentare le tasse alle maggiori multinazionali, ma concederà solo la possibilità di tassare una piccola parte dei profitti delle società in base alle vendite. Il gruppo del G24 dei paesi in via di sviluppo ha quindi chiesto che l’accordo coprisse una quota molto maggiore dei profitti e ha minacciato di continuare imperterrita l’adozione delle proprie tasse.
Per conto del G7 e del gruppo costituente della riforma fiscale, è stato offerto a questi Paesi un compromesso in cui il limite per attivare la tassazione per le aziende coperte dall’accordo globale sarebbe stato abbassato da 20 miliardi di dollari di fatturato a 10 miliardi dopo sette anni.
Ma anche questo non è servito. Perché, si legge nell’articolo, i paesi in via di sviluppo vogliono anche aumentare l’aliquota fiscale minima globale proposta di almeno il 15 per cento. Mathew Gbonjubola, l’ambasciatore della Nigeria presso l’Ocse, ha affermato che fissare il minimo globale a quel livello «non garantirebbe nessun effetto per i paesi in Africa», ma al contrario continuerebbe a «promuovere l’erosione della base fiscale dei paesi africani».
Detto ciò, Gbonjubola ha anche affermato che le «pressioni politiche» hanno reso molto difficile la decisione di aderire o meno alla riforma. Puntualizzando poi sul fatto che «ogni giurisdizione deve indicare chiaramente se è dentro all’accordo o contro», perché al momento non sembra esserci nessuna «terza opzione».