Lo scossone provocato dal Covid-19 ha contribuito a rafforzare il dominio dei super brand del comporto moda, nella maggioranza dei casi di proprietà dei tre principali gruppi del lusso: LVMH, Kering (francesi) e Richemond (svizzero). È per questo che il consolidamento dei player più piccoli è divenuto ora una questione di sopravvivenza.
Così quando il Gruppo Ermenegildo Zegna pochi giorni fa ha rivelato l’intenzione di quotarsi alla Borsa di New York (NYSE, l’attenzione è tornata sulla nostra penisola dove la frammentazione delle aziende moda resta alta.
Che succede al Made in Italy?
Dopo lo shopping senza freni dei tre gruppi citati (hanno acquisito tra gli altri italiani Gucci, Bottega Veneta, Fendi, Emilio Pucci, Brioni, Loro Piana, Officine Panerai, Pomellato, Acqua di Parma…) ma anche americani (Versace) o del Quatar (Valentino) altri accordi recenti segnalano l’interesse degli investitori a finanziare l’espansione di marchi italiani: L Catterton un private equity di proprietà di LVMH solo pochi giorni fa ha acquisito una quota di maggioranza di Etro. E sempre LVMH è salito al 10% all’interno del gruppo Tod’s di Della Valle (oltre a Tod’s, Fay, Roger Vivier, Schiapparelli).
Pare poi siamo in arrivo altre fusioni e acquisizioni. Come è accaduto per Moncler (italiano a tutti gli effetti, quotato nel 2019 alla Borsa di Milano) con Stone Island; come ha fatto O.T.B. di Renzo Rosso (che già possedeva oltre a Diesel, Maison Margela, Marni, Viktor & Rolf e Amiri) con Jil Sander; come pure Zegna fece nel 2018 con il marchio americano Thom Browne.
Il Made in Italy negli ultimi decenni dello scorso secolo è divenuto leader nella moda grazie alla creatività dei suoi designer, ma soprattutto per l’impareggiabile filiera alle loro spalle: che comprendeva la produzione di tessuti e pelli e insuperabili, così come lo era la confezione di abiti, calzature e pelletteria. Non è più così: la dislocazione produttiva ha venduto (o svenduto?) ad altre realtà molte di queste competenze: prima di tutto alla Cina e a seguire ad altre nazioni del subcontinente asiatico. Si è trattato di una politica dei prezzi al ribasso (dissennata?) che ha travolto tutto.
In ogni caso competenze (straordinarie) ancora ce ne sono nella nostra Penisola: Ermenegildo Zegna e Prada ad esempio – in vista di una prossima forte espansione della maglieria tra le preferenze dei consumatoti – hanno acquisito di recente la quota maggioranza del produttore di cashmere Filati Biagioli Modesto.
La situazione è in forte evoluzione e resta da capire quale ruolo potrebbe giocare il gruppo Exor di John Elkann, nella costruzione di un conglomerato del lusso potenzialmente ancorato alla Ferrari (RACE.MI). Exor che già possiede partecipazioni in Christian Louboutin e Shang Xia (gruppo cinese co-fondato dalla francese Hermes) stando a quanto rivela Reuters avrebbe di recente esplorato la possibilità di acquisire una quota di minoranza della casa di mode guidata dall’ottantasettenne Giorgio Armani che gli analisti valutano a circa 6 miliardi di euro.
La trattativa non avrebbe però avuto segioto a causa della riluttanza del designer (già contattato anni fa per la stessa ragione da LVMH) a vendere.
Le parti in causa al momento negano ogni commento. Ma pur tra mille reticenze qualcosa traspare pure da una recente intervista rilasciata da Federico Marchetti (il fondatore di Yook Net-a-porter) a Vanity Fair, (agosto 2021) se non altro per la singolare posizione da ponte dello stesso Marchetti che attualmente siede tanto nel consiglio di amministrazione della Giorgio Armani che del gruppo editoriale Gedi (presidente John Elkann).