Nel 1995 Pier Vincenzo Mengaldo scriveva che Raffaello Baldini è «uno dei tre o quattro poeti più importanti d’Italia».
Un’affermazione sorprendente, soprattutto se si pensa che Baldini è stato un poeta dialettale. Negli anni Novanta, sempre stando a quanto scrive Mengaldo, era «ancora vivo il pregiudizio pigro per il quale un poeta in dialetto è un minore». E oggi? La poesia, come si sa, è diventata un genere di nicchia: se ne produce e, soprattutto, se ne legge sempre meno. Il dialetto è ormai un oggetto di antiquariato linguistico. Nelle città è raro sentirlo parlare, nei paesi è patrimonio di generazioni che lentamente stanno scomparendo. Passando davanti a qualche bar, si può ancora ascoltare dei giovani che imprecano in dialetto, può essere dunque una lingua con cui scriverci poesie?
I dialetti, più corretto infatti parlarne al plurale, sono in disuso per tanti motivi: scolarizzazione, mobilità geografica, necessità di utilizzare lingue omologanti, ecc., ma, in un certo senso, anche perché sta scomparendo quel mondo che descrivevano: certe cose potevano essere pensate e dette solamente usando il dialetto: «Non è che io ho scelto di scrivere in dialetto. È che non avevo scelta. Se si vogliono raccontare quelle cose come sono realmente accadute, non c’è scelta: bisogna raccontarle in dialetto», ha affermato Raffaello Baldini in un’intervista.
Una lingua semplice, il cui uso viene quasi naturale, nata dal basso, senza regole grammaticali imposte. Eppure, associare il dialetto a un mondo che se ne sta andando e vederlo come una lingua con cui non si può più comunicare (e a maggior ragione “fare poesia”), è fuorviante. Soprattutto se si prende come riferimento proprio Raffaello Baldini, giornalista e poeta, santarcangiolese ma vissuto per lo più a Milano, che scriveva versi in dialetto romagnolo.
La sua lingua non era quella di Cesare Zavattini, di Franco Loi o di Pier Paolo Pasolini, per fare qualche nome noto di autori che si sono cimentati col dialetto. Era quella di Tonino Guerra, ma lo stile di Baldini era diverso, diverso anche da quello di tutti gli altri, dialettali o italiani.
Si può dire infatti che Baldini è stato un poeta moderno, che ha trovato un suo modo di scrivere in versi, originale e personale, pur utilizzando la lingua del suo paese natìo, ambientando le sue storie nella provincia e raccontandone la quotidianità, attraverso situazioni comuni: «cmè gnént, la m’à dett: “Grazie”, “Ta n’è sàida?” / la m’à fat sègn ad no, la è ‘ndè un po in zeir / la s’è puzèda me murètt, d’impì / la guardèva d’in èlt, Siro e’ baléva / ancòura sla Doriana / e li alè, da magnèla / s’ cla camisètta, la sutèna bló / e mè aquè me bancòun a bai ‘na spuma [come niente, mi ha detto “Grazie”, “Non hai sete?” / mi ha fatto segno di no, è andata un po’ in giro / s’è appoggiata al muretto, in piedi / guardava in alto, Siro ballava / ancora con la Doriana / e lei lì, da mangiarla, con quella camicetta, la gonna blu / e io qui al bancone a bere una spuma]».
Da poco Einaudi ha ripubblicato, mantenendo la prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, la raccolta “Ad nòta” (Di notte), con fedeli traduzioni a piè di pagina, uscita originariamente per Mondadori nel 1995. “Murgantòuna”, “I nòm”, “Ad nòta”, “I travès”, “L’Inféran”, “Ad sòtta”, “E’ circal”, “E’ divèri”, “La féila”, sono solo alcune delle poesie più rappresentative dello stile di Baldini: quel monologo incalzante, frammentato, sospeso, pronunciato da personaggi sghembi, fuori asse, ossessivi, irrisolti, con i quali Baldini forse a tratti s’immedesima, per i quali prova sempre vicinanza umana e che noi sentiamo come compaesani.
Uno stile prosastico, che tenta di cogliere l’essenza orale del dialetto e il parlato quotidiano, per descrivere immagini e paesaggi interiori o rappresentare scene di vita o di bizzarria romagnola, anche dai risvolti comici, che a volte si concludono con squarci di puro lirismo: «e adès un zétt, alazò e’ sòul l’è ròss / ‘na rònda, un’èlta, quant agli è? Al s’aràgna / al va d’in so, di sgréss, pu zò ‘d spuntéun / niri, a li guérd cm’e’ fóss la préima volta [e adesso un silenzio, laggiù il sole è rosso / una rondine, un’altra, quante sono? Litigano / vanno in su, degli stridi, poi giù a capofitto / nere, le guardo come se fosse la prima volta]».
Come ha scritto Daniele Benati, «La grossa differenza tra Baldini e gli altri poeti sta nel fatto che le sue poesie, anche le più brevi, sono un punto d’incontro tra diversi generi: quello poetico, quello narrativo e quello teatrale». Non è un caso quindi che in quegli anni, tra il 1993 e il 1997, Baldini scriva i suoi primi monologhi (“Carta canta”, “Zitti tutti!” e “In fondo a destra”), ai quali si aggiungerà poi “La fondazione”. Testi teatrali che sono davvero un tutt’uno con le poesie: il tono, i personaggi, i temi, i deragliamenti, le idiosincrasie, sono gli stessi: «e io sono strambo, sono strambo e me ne vanto, sissignori, devo essere come coso, io, come Dino Manfroni? Che parla sempre in italiano, sì, ho capito, lui è laureato, non può parlare in dialetto, non sta bene, che poi parlo anch’io in italiano, quando è il momento, che bisogna parlare in italiano, ma lui no, lui parla sempre in italiano, nevvero? Perché dice anche nevvero, è una roba, nevvero, nevvero (…) ma va a fare le pugnette te e nevvero, che lo dice anche con due V, nevvero, lo dice doppio, nevvero, non è vero? Ecco, per dire non è vero? Invece lui dice nevvero, e io dico che è un coglione».