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Divisi tra chi sostiene il ritorno all’agricoltura di un tempo e chi studia per far progredire i mestieri della terra, l’unica possibilità per salvare il pianeta e nutrire tutti è trovare un giusto mezzo tra due tendenze che non devono essere contrapposte ma viaggiare parallele

La FAO ha da poco condotto uno studio che identifica centinaia di piante e specie di animali da cui dipendono le popolazioni indigene. Queste stesse piante sono in grado di generare sostenibilità alimentare e migliorare la biodiversità. Oggi, questi sistemi rischiano di scomparire per via del cambiamento climatico, dell’industrializzazione e delle attività commerciali sempre più diffuse.

Quasi 500 milioni di persone in più di 90 paesi si autodefiniscono come popoli indigeni e raccolgono centinaia di prodotti alimentari dalla terra, senza esaurire le risorse naturali e raggiungendo alti livelli di autosufficienza, rivelandosi tra i più sostenibili al mondo in termini di efficienza, assenza di sprechi, stagionalità e reciprocità.

Il nuovo rapporto rappresenta il lavoro collaborativo e la ricerca sul campo con le organizzazioni e i centri di ricerca delle popolazioni indigene in tutto il mondo. I suoi autori sottolineano l’urgente necessità che i governi e la comunità internazionale stabiliscano e applichino politiche interculturali che sostengano gli sforzi dei popoli indigeni per proteggere i loro sistemi alimentari.

E sempre in ottica di recupero di risorse preziose, il Guardian stila un elenco dei cibi da scegliere per preservare il Pianeta e combattere il cambiamento climatico. Chiaramente le due ricerche vanno nella stessa direzione: mangiare cibi che provengono da luoghi non troppo lontani; mangiare carne proveniente da animali nutriti d’erba; mangiare un mix di prodotti freschi di stagione e prodotti conservati dalle stagioni precedenti. Cercare la filiera più corta possibile: il peso e il contenuto di acqua di frutta e verdura rendono il trasporto altamente inefficiente. Scegliere alcuni ingredienti al posto di altri, a seconda della loro efficienza produttiva: i legumi, per esempio, attraverso noduli radicali contenenti batteri che convertono l’azoto atmosferico in ammoniaca, anche se non sono coltivati biologicamente, non hanno bisogno di fertilizzanti artificiali, che degradano il terreno.

E poi la grande verità che tendiamo troppo spesso a dimenticare: se smettessimo del tutto di sprecare cibo, elimineremmo l’ 8% delle nostre emissioni totali. Un modo semplice per salvare il pianeta sarebbe ridurre quanto più possibile gli sprechi e fare dell’eccedenza alimentare una risorsa. Le strade per farlo sono

C’è un’altra via possibile, non alternativa ma parallela? Quella della sperimentazione e della scienza. Un team di ricercatori tedeschi, italiani e israeliani afferma che produrre cibo da batteri e aria sarebbe dieci volte più efficiente che piantare un campo equivalente. In altre parole, un campo di un ettaro di terreno, destinato alla coltivazione in vitro, produrrebbe l’equivalente di dieci ettari di semi di soia piantati in campo aperto, con gli altri nove ettari che potrebbero essere restituiti alla natura. Una nuova strada di proteine alternative è sempre più probabile, in armonia con una parte vegetale sempre meno intensiva e sempre più nutriente. Sembra più facile di quel che è, ma il nuovo mondo agricolo deve per forza mettere a sistema il progresso e la tradizione: senza un dialogo costruttivo si rischia di rimanere tutti senza soluzioni.

E mentre in Italia viene presentata la 91esima edizione della Fiera Internazionale del tartufo bianco d’Alba, in Francia succede una cosa con cui i piemontesi dovranno presto fare i conti. Dopo vent’anni di ricerche, l’INRAE Nancy e il vivaio Robin sono riusciti a coltivare il tuber magnatum Pico nei frutteti. Se i vincoli di coltivazione restano forti, si aprono nuove prospettive per il tartufo francese. E nuovi bisogni di comunicazione per il tartufo italiano pregiato, finora indiscusso protagonista sulle tavole di tutto il mondo.

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