Nel 1967 alzare una bandiera palestinese a Gaza e in Cisgiordania era considerato un crimine e chiunque tentasse di farlo rischiava l’arresto. Per aggirare il divieto gli attivisti palestinesi iniziarono a trasportare fette di anguria – rossa, nera, bianca e verde come i colori della bandiera – attraverso la regione in segno di protesta. La storia, un po’ vera e un po’ costruita a fini propagandistici, è tornata a circolare sui social media dopo il bombardamento su Gaza del maggio scorso.
L’episodio che sancisce l’esistenza del movimento #watermelonresistence risale al 1980 quando, durante una mostra alla Galleria 79 di Ramallah, Israele giudicò illegali alcune opere esposte e chiuse al pubblico la galleria tre ore dopo l’inaugurazione. Agli artisti coinvolti – Nabil Anani, Sliman Mansour e Issam Badr – venne intimato di smettere di realizzare dipinti politici e consigliato di orientarsi su altri soggetti. «Ci dissero che dipingere la bandiera palestinese era proibito e che anche i suoi colori lo erano» ha raccontato Mansour alla rivista The National. «Allora Badr chiese: e se facessi un fiore rosso, verde, nero e bianco? E l’ufficiale rispose: sarà confiscato. Anche se dipingi un’anguria, sarà confiscata».
Mansour e compagni continuarono la loro protesta e durante la Prima Intifada guidarono il movimento New Vision, in difesa dell’autosufficienza palestinese. «La filosofia della Prima Intifada era boicottare i prodotti israeliani e fare affidamento su noi stessi. La gente piantava ortaggi nei propri orti per non comprare nulla da Israele. Abbiamo pensato: perché come artisti non facciamo lo stesso? Perché dovremmo comprare la vernice dai negozi israeliani e poi usarla per dipingere contro di loro?». Mansour iniziò a utilizzare materiali poveri come fango e paglia nelle sue opere e lo stesso fecero altri artisti come Nabil Anani e Tayseer Barakat, che lavorarono con henné, tinture vegetali e altri materiali naturali.
Nell’ottobre del 1993, poche settimane dopo che Israele e l’organizzazione per la liberazione della Palestina firmarono gli accordi di Oslo a Washington, che revocarono il divieto di esporre la bandiera e diedero vita all’Autorità palestinese, il New York Times riferì di alcuni giovani incarcerati mesi prima perché sorpresi in possesso di alcune fette di anguria nella Striscia di Gaza, circostanza poi smentita dal quotidiano perché non confermata da fonti ufficiali. Le angurie restarono legate alla lotta per l’indipendenza e nel 2000 tornarono come simbolo della Seconda Intifada, l’insurrezione palestinese che si diffuse rapidamente da Gerusalemme a tutta la Palestina.
Nel 2007 fu la volta di un altro artista, Khaled Hourani, che conosceva la storia di Mansour. La sua fetta di anguria dipinta venne inserita nel progetto “Atlante della Palestina” e girò mezzo mondo: Scozia, Francia, Giordania, Libano ed Egitto.
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Nelle ultime settimane, in seguito ai bombardamenti su Gaza, il lavoro di Hourani ha ricevuto centinaia di messaggi e condivisioni. «Per me è stato un po’ inaspettato – ha raccontato l’artista. Onestamente non so come affrontare questa cosa ma sono felice che il mio lavoro attiri l’attenzione sulla causa palestinese». Hourani descrive il sostegno online alla Palestina, in particolare da parte delle generazioni più giovani, come una sorta di magia. «La gente in tutto il mondo si sta facendo sentire per dire che l’occupazione deve finire. Questo è un momento storico. Come artista, come essere umano, mi sento onorato che il mio lavoro venga utilizzato come strumento o sia parte di questa forza trainante».
Seguendo l’esempio di Hourani, altri artisti in tutto il modo si stanno spendendo per la causa palestinese, tra questi Sarah Hatahet, illustratrice giordana che vive ad Abu Dhabi e Aya Mobaydeen, di base ad Amman.
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Nei lavori di questi artisti contemporanei non ci sono solo angurie. Sami Boukhari che vive a Jaffa disegna spesso fichi d’India. «Prima del 1948 – ha spiegato in un post su Instagram – il fico d’India fungeva da confine naturale che separava le diverse proprietà fondiarie nelle zone agricole. Durante la Nakba del 1948, le città furono gravemente danneggiate e 532 villaggi palestinesi furono distrutti fino alle fondamenta, per impedire il ritorno degli abitanti. Ancora oggi è vietato loro tornare in patria. Erano stati definiti da Israele come “presenti assenti” in modo che le loro proprietà potessero essere confiscate dal nuovo Stato. Anche i palestinesi che sono rimasti dopo la guerra sono stati sfollati con la forza dalle loro case, la terra e le proprietà furono depredate, la popolazione originaria espulsa, ma i confini tracciati dai fichi d’India sono sopravvissuti fino ad oggi».
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Beesan Arafat, artista giordano palestinese che vive in Inghilterra, recentemente ha disegnato pomodori rossi e foglie verdi per denunciare la decisione del governo israeliano di rimuovere il picciolo (la parte verde della pianta che mantiene il frutto attaccato allo stelo) dai pomodori palestinesi coltivati nella Striscia di Gaza, prima di inviarli ai mercati della Cisgiordania e dei paesi arabi attraverso il valico di Karm Abu Salem.
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Le autorità israeliane non hanno dato spiegazioni in merito a questa richiesta mentre gli agricoltori hanno duramente criticato la restrizione imposta da Israele. «La nostra frutta e verdura fa paura a Israele?» si chiede Beesan Arafat mentre c’è già chi scommette che i pomodori – rossi e rigorosamente con il picciolo – diventeranno il prossimo simbolo dell’indipendenza palestinese.
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