Il software Pegasus, sviluppato dalla società israeliana Nso per offrire a militari, polizia e intelligence la possibilità di sorvegliare e intercettare terroristi e criminali, sarebbe stato utilizzato in modo illegale da diversi governi di tutto il mondo per spiare 50mila smartphone di attivisti per i diritti umani, politici, autorità religiose, avvocati e giornalisti. Compresa la direttrice del Financial Times Roula Khalaf.
La rivelazione arriva da un’inchiesta internazionale di 16 testate giornalistiche, tra cui Guardian e Washington Post, che hanno riunito gli sforzi nel consorzio Pegasus Project, dal nome del software in questione. Tra i governi che avrebbero utilizzato il programma, ci sarebbe – secondo il Guardian – quello dell’Ungheria guidato da Viktor Orbán, l’unico dell’Unione europea coinvolto nell’indagine. Gli altri governi accusati di aver usato il software in modo illegale sono quelli di Azerbaigian, Bahrain, Kazakistan, Messico, Marocco, Ruanda, Arabia Saudita, India ed Emirati arabi Uniti.
Il leak che ha dato avvio all’inchiesta si compone di 50mila numeri di telefono che sarebbero stati spiati attraverso il programma, distribuiti in 45 Paesi. Solo in Europa, sono oltre mille gli smartphone che potrebbero essere stati spiati.
Tra gli obiettivi, ci sarebbero «centinaia tra uomini d’affari, autorità religiose, accademici, operatori di Organizzazioni non governative, sindacalisti, funzionari governativi, ministri, presidenti e primi ministri». Oltre a 180 giornalisti di testate come Financial Times, Cnn, New York Times, France 24, The Economist, Al Jazeera, Mediapart, El Pais, Bloomberg, e le agenzie di stampa Associated Press, Agence France-Presse e Reuters.
Roula Khalaf, direttrice del Financial Times, sarebbe tra le vittime dello spionaggio. Oltre a lei, tra i telefoni «infettati», ci sono quelli di almeno due giornalisti ungheresi del sito investigativo Direkt36; una giornalista investigativa dell’Azerbaigian; Khadija Ismayilova, Siddharth Varadarajan e Paranjoy Guha Thakurta, reporter indiani del sito Wire, che nel 2018 indagavano sull’utilizzo di Facebook, da parte del governo indiano di Narendra Modi, per operazioni di disinformazione online; Omar Radi, giornalista marocchino che il governo di Rabat accusa di essere una spia britannica; e Bradley Hope, giornalista americano a Londra che all’epoca dell’attività di sorveglianza lavorava per il Wall Street Journal.
Ma tra i numeri di telefono nel database, ci sono anche quelli della giornalista messicana Carmen Aristegui; di Ben Hubbard, a capo dell’ufficio di Beirut del New York Times; e quello di Cecilio Pineda Birto, ucciso in un autolavaggio.
Secondo il Washington Post, 37 persone legate al reporter saudita Jamal Khashoggi – ucciso nel 2018 nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul – sono state spiate con il software militare. Tra loro, anche la fidanzata di Khashoggi, che sarebbe stata intercettata quattro giorni dopo l’assassinio.
Il software Pegasus consente di controllare ogni tipo di informazione presente in uno smartphone, tra cui messaggi, fotografie, email e il contenuto delle telefonate, compreso il contenuto di app criptate, come WhatsApp, Telegram e Signal, oltre che di controllare la posizione del cellulare in tempo reale.
La società israeliana Nso ha sempre sostenuto che dopo aver venduto il software a governi «accuratamente selezionati», non ne ha più il controllo operativo, né ha accesso ai dati delle persone spiate. Raggiunta dai giornali del Pegasus Project, ha sostenuto che il numero di telefonini controllati rappresenterebbe «un’esagerazione», e ha affermato che quella lista non può essere «una lista di numeri di telefono colpiti da governi che usano Pegasus».