Malattia XSarà molto difficile farsi trovare pronti per la prossima pandemia

Quando il Covid-19 ha iniziato a creare problemi in tutto il mondo, la maggior parte degli Stati non era pronta a opporre le adeguate contromisure. Un lungo articolo dell’Atlantic spiega perché le stesse avversità si potrebbero riscontare in una eventuale nuova crisi sanitaria

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All’inizio dell’anno scorso la pandemia ha sorpreso tutto il mondo, nonostante gli avvisi – più o meno timidi – di fine 2019. Ma guardando al recente passato si potrebbe dire che l’uomo si sia ormai abituato a convivere, periodicamente, con la comparsa di nuovi agenti patogeni.

Dall’inizio del millennio sono arrivati, nell’ordine: Sars nel 2003, l’influenza suina nel 2009, Ebola nel 2014, il virus Zika nel 2016, adesso Covid-19. L’Organizzazione Mondiale della Sanità chiama queste minacce virali “Malattia X”, per indicare ai leader politici di tutto il mondo che il prossimo nemico non è ancora identificato e potrebbe avere qualunque forma, portata, impatto sui cittadini di ogni Paese.

Oggi, dopo un anno e mezzo di pandemia, nella maggior parte degli Stati i dati rilevano un sostanziale miglioramento, grazie anche alla diffusione dei vaccini. Per qualcuno è già tempo di bilanci e di prospettive future: l’Atlantic ha pubblicato un lungo articolo, firmato da Olga Khazan, in cui analizza il lavoro fatto in 18 mesi per contrastare la pandemia. È un’analisi focalizzata prevalentemente sulla risposta degli Stati Uniti, con molti punti dedicati esclusivamente alla realtà americana – come quella sulla reazione dei singoli Stati federali – ma altri punti possono essere estesi al resto del mondo.

«Gli esperti concordano nel dire che quel che abbiamo imparato permetterà di arrivare più preparati alla prossima crisi della sanità pubblica. Ma essere davvero pronti per un’altra pandemia sarà più difficile di quanto si possa pensare», scrive Olga Khazan.

La gestione delle mascherine è un chiaro esempio di quanto possa essere difficile preparare a dovere l’arrivo di una – eventuale – nuova crisi sanitaria. Nessun Paese poteva avere, nei primi mesi del 2020, una fornitura sufficiente di mascherine, né ffp1, né ffp2, né altro. Ma era inevitabile. Prima della pandemia nulla avrebbe giustificato un investimento e una produzione su così vasta scala di mascherine.

Soprattutto per i prodotti non facilmente deperibili – le mascherine hanno una durata media di 5 anni almeno – gli Stati potrebbero adeguarsi e immaginare qualcosa che si possa definire una scorta nazionale. Qui però si va nella dimensione delle decisioni politiche e degli errori commessi in questi 18 mesi. In questo senso la pandemia dovrebbe rappresentare una lezione da imparare: «Gli Stati Uniti – si legge nell’articolo dell’Atlantic – avrebbero dovuto avere una riserva strategica di mascherine N95, ma si è scoperto che il governo federale aveva distribuito 85 milioni di N95 durante la pandemia di influenza suina del 2009 e che la fornitura non è mai stata ricaricata».

Lo stesso schema si può replicare ovviamente per tutti i dispositivi di protezione individuale. Ma non è detto che tutti i governi abbiano la prontezza e la capacità di programmazione per farsi trovare preparati la prossima volta che ce ne sarà bisogno.

Il discorso vale anche per i periodi di quarantena obbligatoria. Nella maggior parte dei Paesi chi risultava positivo al Covid-19 ha dovuto trascorrere due settimana in casa in autoisolamento. Però questo ha avuto ricadute economiche su molti lavoratori, soprattutto quelli che non avevano e non hanno il reddito garantito in caso di assenza sul luogo di lavoro – o chi, ad esempio, non aveva la possibilità di prendere giorni di ferie.

La legislazione del mondo del lavoro presenta differenze sostanziali da Stato a Stato, ovviamente. In Europa, in generale, ci sono più tutele per i lavoratori rispetto agli Stati Uniti, che l’Atlantic indica come «l’unico Paese industrializzato senza congedo nazionale retribuito obbligatorio. E see il congedo retribuito non viene stabilito per legge prima della prossima pandemia, gli americani si ritroveranno nella stessa situazione, trascinandosi nel lavoro e diffondendo dietro di sé agenti patogeni».

A proposito di differenze tra un Paese e l’altro. In una crisi sanitaria l’attenzione è inevitabilmente rivolta ai sistemi sanitari nazionali, che durante il 2020 hanno lavorato a ritmi straordinariamente elevati.

La risposta dei governi è arrivata spesso sotto forma di sussidi, di nuove iniezioni di denaro saltuarie. Anche perché in molti casi, dopo la crisi del 2008, sono stati fatti tagli alla Sanità pubblica. Tagli di cui poi si è sentito il peso durante la pandemia.

Come scrive l’Atlantic, lo stesso American Rescue Plan firmato dal presidente Joe Biden a marzo destina 7,7 miliardi di dollari all’assunzione e alla formazione di più operatori della sanità pubblica per svolgere compiti come la ricerca dei contatti e la vaccinazione.

«Diversi esperti – si legge nell’articolo – hanno elogiato questa grande mole di denaro, ma hanno affermato che ciò che è veramente necessario è un budget annuale più ampio per la sanità pubblica. I dipartimenti di sanità pubblica non possono assumere persone sulla base di un’unica ondata di investimenti. Proprio come le aziende, che hanno bisogno di entrate annuali certe per poter investire».

Se i sistemi sanitari nazionali sono fragili, lenti, obsoleti, sarà più difficile formulare delle strategie di risposta alla prossima crisi. L’esempio del tracciamento dei contagi e dei test aiuta a spiegare le difficoltà che hanno incontrato molti Paesi: «Gli Stati Uniti erano in ritardo sui test del coronavirus perché il processo di autorizzazione per nuovi tipi di test di laboratorio era troppo lento: la velocità di diffusione del virus e i tempi di reazione della burocrazia non sono per niente compatibili. Dopo le prime difficoltà qualcosa è cambiato, i processi di autorizzazione sono stati accelerati. Ma non è detto che i test per la “Malattia X” possano andare altrettanto velocemente», scrive Olga Khazan.

Oltretutto, come purtroppo abbiamo visto in molti casi nell’ultimo anno e mezzo, i test sono spesso oggetto di interesse politico, quindi di strumentalizzazione: molti capi di Stato o di governo – a partire da Donald Trump – erano pronti a esultare ogni volta che il numero dei positivi, in valore assoluto, calava, ma magari era solo effetto di un rallentamento nei tamponi analizzati.

Nel caso di Stati molto grandi l’esperienza della pandemia è stata molto differente in base alle diverse zone geografiche. L’Atlantic fa l’esempio americano: dall’altro lato dell’Atlantico le differenze tra uno Stato e l’altro sono macroscopiche.

«Ai texani è stato permesso di smettere di indossare maschere il 10 marzo 2021, quando meno del 10% della popolazione degli Stati Uniti era stata completamente vaccinata. Gli hawaiani, invece, dovevano continuare a indossare mascherine anche quando il 40% degli americani era stato completamente vaccinato. Lo scorso aprile, una newyorkese potrebbe essersi ritrovata da sola nel suo minuscolo appartamento, mentre i suoi parenti nel South Dakota, che non hanno mai dovuto mostrare un’autocertificazione, sedevano in un casinò come se fosse un normale giorno di primavera. L’intera pandemia è stata una bizzarra storia di avventure, in cui i governatori hanno fatto la maggior parte delle scelte», scrive l’Atlantic, per spiegare che se nei momenti di maggiore difficoltà mancano le connessioni tra le amministrazioni locali e il governo centrale – che dovrebbe coordinare – è molto più probabile che la risposta al virus abbia esiti molto diversi da zona a zona.

«Le pandemie – è la conclusione dell’articolo – sfruttano le vulnerabilità e le fragilità che non ci siamo mai presi la briga di puntellare. Potremmo non sapere quale sarà la “Malattia X”, ma lei sa esattamente dove colpirci».

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