Una delle questioni principali che stanno emergendo con prepotenza negli ultimi giorni è la difficoltà del nostro Paese a riconoscere una cultura del dovere rispetto a una debordante cultura dei diritti di tutti i tipi che ha caratterizzato, purtroppo, gli ultimi cinquant‘anni.
Nella rivoluzione culturale occidentale partita dai movimenti del Sessantotto e rafforzata con l’emergere di una “intellighenzia” per lo più di sinistra, è stata impostata una cultura egemonica nelle scuole, nelle università, nei media di tutti i tipi tesa ad affermare il diritto di tutti a ottenere una società più equa, più garantista nei confronti dei più deboli, più attenta alle richieste di tutti i tipi provenienti dalle classi sociali meno privilegiate, o dalle donne o dagli anziani.
La genesi di questa cultura ampiamente egemone è stata proprio la necessità, più che condivisibile, di evitare ineguaglianze e disparità che venivano vissute come non più accettabili se non antistoriche. Questa cultura si è andata rafforzando negli anni andando a scovare diritti e protezioni spesso giustificate negli intenti, ancorché alla fine quasi estreme e alcune volte ridicole nei risultati ultimi.
Il problema però non è tanto la portata della cultura di difesa dei diritti dei più deboli o dei diversi, ma la cancellazione assolutamente non necessaria e non condivisibile della cultura del dovere e della selezione dei più meritevoli.
Gli ambiti più drammatici di questa conseguenza collaterale della “cultura dei diritti” sono la scuola e la politica dove, in conseguenza della cancellazione di ogni necessaria selezione, abbiamo assistito allo scempio assoluto della perdita di importanza delle competenze in praticamente qualsiasi ambito, alla cancellazione della selezione della classe dirigente sublimata dal recente e folle “uno vale uno”, fino ad arrivare a un progressivo impoverimento del nostro sistema scolastico, testimoniato dai pessimi e non abbastanza sottolineati risultati dei test Invalsi.
La scuola è stata trasformata in un diplomificio sotto la falsa tesi che bisognava assicurare a tutti un titolo, o una laurea senza invece privilegiare la selezione dei migliori e l’aiuto a chi non poteva avere un supporto familiare adeguato. Così, di fatto, le classi economicamente più abbienti spediscono i figli all’estero nelle università migliori che selezionano in entrata e definiscono un rigore da noi sconosciuto nei curriculum, perpetuando una nuova e assolutamente intollerabile disparità delle possibilità dei nostri ragazzi secondo il censo.
Come in altri ambiti, anche in questo caso si è totalmente sottovalutata la nuova frontiera della globablizzazione, vale a dire il fatto evidente che le regole non le definisce il partito populista di moda in Italia, ma piuttosto l’evolversi del mondo al di fuori dell’Italia, che risulta solo un piccolo Paese nello scenario globalizzato.
Così, le università americane o inglesi (e in futuro tedesche o cinesi) stanno diventando la mecca dell’educazione superiore, mentre i nostri atenei sono il triste epilogo della cultura dei baroni e dei concorsi truccati per parentela o appartenza politica, senza che nessuno o quasi li consideri punti di eccellenza internazionali, così come il titolo di studio o la laurea italiana non hanno praticamente alcun valore concreto come elemento di selezione per la classe dirigente o per un lavoro, mentre una laurea a Oxford, a Harvard, a Stanford o al MIT sono un passaporto a vita per i migliori lavori al mondo.
La selezione dei migliori e, per converso, il “divieto” per i peggiori di ottenere il titolo di studio non sono espressioni di una cultura classista, ma soltanto il necessario meccanismo di perpetuazione dell’ascensore sociale necessario per migliorare costantemente la nostra società, in un contesto globale che ha costantemente “alzato l’asticella”.
Si ha la sensazione che tutto questo sia stato quasi impedito da una classe dirigente che, per essere gentili, si deve definire mediocre, composta da persone che temevano di essere spazzate via qualora fosse emersa in modo duraturo una classe di competenti. Sentire Laura Castelli, Luigi Di Maio, Fabiana Dadone, Danilo Toninelli per non dire la quasi totalità dei cinquestelle rafforza fortemente questa sensazione di difesa del privilegio dell’ignorante assurto al potere per caso, che teme come il fuoco un mondo in cui ci si confronti sulle competenze e sulla realtà dei fatti e non sugli slogan.
In ambito economico l’errore è stato ancora più marchiano e purtroppo sarà foriero di un aggiustamento anche più lungo e difficile. Il debito pubblico come “equilibratore dei diritti” applicato senza porsi il problema di chi dovrà poi ripargarlo, resterà il lascito più drammatico di una società senza più giovani, con una crisi demografica senza precedenti e con la necessità categorica non solo di invertire la spesa lassista degli ultimi quarant’anni, ma anche di iniziare a ripagare il debito creato senza motivazioni se non la solita “cultura del diritto”. Il reddito di cittadinanza e quota 100 sono i due provvedimenti più assurdi che si possano immaginare in un’economia con un tasso di occupazione tra i più bassi in Europa e con differenze territoriali tra Nord e Sud così marcate e con una drammatica crisi demografica in corso.
Ma tant’è: per almeno tre anni dell’ultima legislatura ci siamo sorbiti decine di interviste, articoli e, soprattutto, di interventi di parlamentari che, figli della loro crassa ignoranza, hanno approvato leggi assurde e costosissime per raccogliere consenso elettorale territoriale pagato in modo esponenziale… dai figli che non votano.
Con uguale stoltezza è stato gestito il drammatico problema del Meridione. Studi recenti hanno mostrato l’approccio differente dell’Italia e della Germania nella gestione delle loro differenze territoriali – tra Ovest ed Est nel caso tedesco e tra Nord e Sud nel caso italiano. La condizione di partenza, all’inizio degli anni Novanta, era la stessa. Un notevolissimo gap di produttività e di ricchezza tra territori contigui.
I tedeschi hanno scelto un sistema di gabbie salariali che riconoscesse almeno in parte il forte differenziale di produttività. Noi abbiamo scelto la cultura del “salario non si tocca”. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. L’Est della Germania ha colmato almeno in parte il gap con l’Ovest, mentre nel nostro Sud si è scavato un solco ancora piu profondo di differenza rispetto al Nord del Paese. Viaggiare nel Sud Italia è un’esperienza amarissima. Sembra di essere in un altro Paese con regole diverse, ma soprattutto è palese la sensazione che sia difficilissimo impostare una “rivoluzione del lavoro” che crei vere opportunità di sviluppo per il territorio.
Del resto, il proclamare di avere sconfitto la povertà con il reddito di cittadinanza non può essere foriero di investimenti e di nuovi posti di lavoro, in un contesto dove il lavoro nero domina incontrastato e senza alcun controllo.
La “mediocrazia” di cui parla acutamente Marco Bentivogli, cioè la scelta dei mediocri amici a scapito degli eccellenti se non amici, è la cifra costante della nostra società negli ultimi decenni. Così le persone scelte nella politica, nelle università e perfino in alcuni ambiti aziendali tra cui spiccano le aziende dove le nomine sono state spesso gestite dalla politica, non sono mai le migliori o le più competenti, ma solo e semplicemente i mediocri che hanno saputo baciare la pantofola della politica in auge, per poi ricambiare il favore perpetuando le scelte che sono prerogativa dalla nomina conseguita.
Mario Draghi costituisce una rottura di questo schema e i risultati si sono visti in modo eclatante da subito, nelle vaccinazioni, nella riforma della giustizia, nel Pnrr e, in generale, nella gestione dello Stato dopo i tre drammatici anni di reality show con Giuseppe Conte e Rocco Casalino.
Ma per ottenere risultati duraturi serve che nelle famiglie si insegni innanzitutto che esistono doveri oltre che diritti, che il lavoro è un dovere per perpetuare la possibilità dei più giovani di imparare e crescere in una società sempre più sofisticata che richiede decenni di formazione per essere in grado di svolgere compiti qualificati, che il merito va riconosciuto e premiato e non demonizzato come fosse un privilegio da combattere.
Serve insomma che cresca una consapevolezza che anche nel XXI secolo non è data all’uomo la possibilità di vivere di sussidi. L’asticella della salute, dell’istruzione, della sicurezza in questi anni si è alzata moltissimo. Per superarla dobbiamo lavorare (come sempre è stato nella storia, peraltro). E pensare che il progresso dell’umanità o la “modernità” consenta di non farlo è solo frutto della stucchevole e ormai stantia narrazione di una pretesa uguaglianza che maschera semplicemente la negazione del merito, della capacità e dell’impegno, per comodità e per catturare un facile consenso.
Non si vincono le olimpiadi per diritto ma solo con un impegno folle e costante nel tempo, unito alle doti che madre natura ha dato. Tanto quanto siamo orgogliosi per le fantastiche vittorie multietniche nello sport, altrettanto dovremmo pretendere lo stesso criterio di selezione dei migliori nella scuola e nella politica, tenendo conto delle doti e dell’impegno dimostrato nella vita.
Non siamo tutti uguali e non possiamo avere diritti senza corrispondenti doveri. Se pretenderemo a ogni costo che sia vero l’opposto, ci ritroveremo molto presto con molti meno diritti e con molta più disuguaglianza, come dimostra facilmente la storia della Russia, di Cuba e di tutti i luoghi dove si è creata la tecnocrazia del burocrate di partito.
I nostri ragazzi lo sanno perfettamente. E tristemente, molto tristemente, emigrano in massa per crescere la loro famiglia nelle società dove la cultura del dovere esiste, dove il merito viene premiato e non nascosto per paura dell’invidia sociale, dove lo sviluppo e l’ascensore sociale sono realtà e non vuoti proclami.
Riportiamoli nella loro patria, a lavorare e a ricreare la cultura del dovere nel nostro splendido Paese.