Ogni secondo, nel mondo si bruciano 250 tonnellate di carbone, 180000 litri di petrolio e 125000 metri cubi di gas, immettendo – sempre ogni secondo – 1100 tonnellate di CO2. Ogni anno preleviamo dalle viscere della Terra 10 miliardi di tonnellate di carbonio fossile (petrolio, carbone e gas) e li disperdiamo in atmosfera sotto forma di 34 miliardi di tonnellate di CO2. Parrebbe un processo perfetto: bruciando combustibili otteniamo tanta energia e produciamo una sostanza innocua e addirittura commestibile per le piante.
Purtroppo, non è così: nel CO2 vi sono due impertinenti doppi legami chimici carbonio-ossigeno che assorbono i raggi infrarossi riemessi dalla Terra come calore, che viene così intrappolato. Inoltre, le piante riescono a mangiare solo metà del nostro CO2 di scarto; il resto si accumula inesorabilmente in atmosfera. In pratica, il nostro “rifiuto innocuo” intesse una sorta di coperta termica atmosferica e innesca un processo di riscaldamento globale artificiale: è l’effetto serra antropogenico, motore del cambiamento climatico.
Quei 2,3 kg di CO2 prodotti dal mio viaggio al supermercato hanno contribuito a inserire un minuscolo tassello nell’invisibile coperta termica che stiamo tessendo intorno alla Terra. Il CO2 che ho emesso si comporta, nei confronti dell’intero pianeta, come i vetri della mia auto sotto il sole cocente: impedisce alla radiazione infrarossa, riemessa dalla Terra, di perdersi nello spazio.
È un problema? No, è un problemaccio! Tra l’altro le caratteristiche uniche del CO2 sono un ostacolo formidabile per gli scienziati: debbono convincere l’opinione pubblica di una minaccia totalmente invisibile come un virus, e che agisce in modo persino più subdolo di un virus. Non riempie in pochi giorni i reparti di terapia intensiva, ma uccide in silenzio, piano piano, mentre mina alla radice la termoregolazione del nostro meraviglioso pianeta.
La molecola di CO2 resta stabile per secoli nell’atmosfera, che invece si rimescola completamente in circa un anno. Risultato: la concentrazione di CO2 è uniforme su tutto il pianeta, è quindi sufficiente un unico luogo al mondo, ben localizzato e ben attrezzato, per misurarla. Questo luogo è il laboratorio della NOAA del governo degli Stati Uniti e si trova a Mauna Loa, sulle Isole Hawaii.
Le misure sono cominciate nel 1958 e, da allora, la concentrazione media annuale di CO2 in atmosfera è passata da 315 a 415 ppm: un aumento del 32%. 415 ppm significa che, preso un campione di un milione di molecole che compongono l’aria (ossigeno, azoto, argon, CO2, ecc.), 415 sono molecole di CO2. A questo punto la reazione tipica è: ma come è possibile che appena lo 0,0415% delle molecole disperse in aria possa causare un disastro? È chiaramente una bufala! I conti però non lasciano scampo: il surplus di calore intrappolato dalle emissioni di gas serra legate alle attività umane (purtroppo non emettiamo solo CO2 ma anche tanto metano e altre perniciose molecole) è di circa 2 W/m2. Immaginate di piazzare una lampadina a incandescenza da 2 W – che dissipa oltre il 95% dell’energia come calore, infatti se la toccate vi bruciate – su ogni singolo metro quadro del pianeta. Questo può dare un’idea della gigantesca stufa che abbiamo acceso.
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A questo punto spero di aver persuaso anche il lettore più scettico che è necessario abbandonare, il più in fretta possibile, i combustibili fossili. È un’affermazione facile, che però si scontra con la dura realtà. Una realtà che vi racconterò da questa pagina in poi e che si chiama transizione energetica verso le fonti rinnovabili. Sarà un processo lungo, estremamente complesso, pieno di grandi sfide, ma anche di enormi opportunità. Un processo che ci chiede di mettere da parte idee consolidate, perché non possiamo progettare il nostro futuro energetico (e non solo quello) con le idee vecchie che ci troviamo scolpite in testa: ne servono di completamente nuove. Va detto però che non stiamo sperimentando una clamorosa novità: l’umanità è costantemente in transizione energetica da oltre 200 anni, come possiamo vedere in figura.
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La Terra è davvero un posto speciale. Non bastasse la straordinaria combinazione di fattori che rendono questo angolo di Universo un’esplosione di vita, il nostro pianeta è letteralmente pieno e costantemente inondato da una quantità stupefacente di energia, riconducibile a 4 principali categorie. Sono le 4 carte che possiamo giocarci per la transizione energetica.
La prima, di gran lunga più rilevante in termini quantitativi, è l’energia solare che può essere sfruttata, attraverso varie tecnologie, sia direttamente (ad esempio, pannelli solari termici e fotovoltaici) che indirettamente (impianti eolici, idroelettrici, a biomasse, correnti marine: è sempre il Sole che in ultima analisi alimenta questi impianti!). L’energia solare viene considerata “rinnovabile” in quanto il Sole continuerà a illuminare la Terra per centinaia di milioni di anni, un periodo sostanzialmente infinito.
La seconda è l’energia nucleare da fissione di elementi chimici pesanti (ad esempio, uranio, non rinnovabile) o da fusione di elementi leggeri (deuterio e trizio, largamente disponibili, anche se il trizio va “fabbricato”). La terza è l’energia geotermica, ovvero il calore ad alta temperatura imbrigliato nel sottosuolo terrestre che in alcune regioni limitate del pianeta (come l’Islanda o la Toscana) giunge in prossimità della superficie, oppure quello a bassa temperatura, disponibile ovunque. La quarta e ultima (anche in ordine di importanza) è l’energia di interazione gravitazionale (Terra-Luna e Terra-Sole) che in alcuni punti del pianeta, ad esempio nel nord della Francia, muove enormi masse di acqua (maree), che possono venire impiegate per produrre elettricità.
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Tra le 4 carte che ci possiamo giocare, quella del Sole è la più importante sia in termini quantitativi che pratici.
[…] La cattiva notizia, però, è che l’energia solare oltre a essere relativamente diluita è anche discontinua su scala locale (ma non su scala globale, metà del pianeta è sempre illuminata!). In altre parole, quindi, non sarà mai possibile far funzionare un ospedale, infrastruttura ad altissimo consumo energetico, con l’energia solare che ne colpisce i tetti di giorno. Da questo si può capire che la prima sfida scientifica e tecnologica è quella di convogliare il gigantesco (e diluito) flusso di energia solare per utilizzarlo con “l’intensità” necessaria, ovunque richiesto, a cominciare da dove la domanda è molto alta: centri urbani e distretti industriali.
L’altro problema da risolvere è che l’energia solare, come tale, serve a poco: deve essere convertita e accumulata in energia utile di uso finale. Elettricità e combustibili, tanto per cambiare. E per produrre convertitori e accumulatori di energia rinnovabile (pannelli fotovoltaici, generatori eolici, batterie, collettori di calore, celle a combustibile, ecc.) occorrono risorse minerarie, che debbono essere reperite scavando la crosta terrestre, esattamente come è stato fatto per oltre due secoli coi combustibili fossili.
In altre parole, un mondo 100% rinnovabile sarà completamente diverso dall’attuale tranne che per un aspetto: dovremo continuare a scavare nel sottosuolo. Non più alla ricerca di petrolio, carbone e gas ma di risorse minerali per costruire i convertitori e gli accumulatori che rendono utilizzabile il gigantesco flusso solare che ci piove in testa.
Rassegniamoci: la transizione energetica non ci libera dalla necessità di utilizzare in modo intelligente e razionale le limitate risorse della meravigliosa prigione in cui siamo confinati, la Terra.
Nicola Armaroli, Emergenza energia. Non abbiamo più tempo, Dedalo edizioni, pagine 96, euro 11,50