Gli scienziati dell’IPCC (Pannello Intergovernativo Cambiamento Climatico) convocati dalle Nazioni Unite, hanno ribadito che il pianeta si sta riscaldando a un ritmo insostenibile, esortando i governi e le imprese ad agire assai più velocemente di quanto accaduto sinora. Non c’è più tempo per tergiversare. Le conclusioni degli scienziati sono state elaborate per essere messe a disposizione dei policymaker ma rese contemporaneamente pubbliche.
Dovremmo essere tutti spaventatissimi: brucia tutto nel sud del nostro Paese: stiamo a guardare evoluzioni di Canadair dai lidi della Sardegna, della Sicilia, della Calabria e della Puglia. Ma pure i decisori politici a cui è destinato questo rapporto dovrebbero essere preoccupatissimi. Perché non c’è solo il fuoco. Fiumi di fango questa estate hanno invaso amene località del Nord Italia come Cernobbio o mietuto vittime nel cuore della preparatissima, ordinatissima Germania.
E invece niente. Appaiono sonnacchiosi anche i Ceo di aziende quotate in borsa, gli stessi che decidono come, cosa e dove produrre, in ogni caso sempre di più e possibilmente a costi originari più bassi.
Le conclusioni dell’IPCC che riguardano il settore tessile abbigliamento sono nette: le misure sino a qui adottate non sono all’altezza della sfida attuale. Sostenibilità? Circolarità? Riciclo? Sono vocaboli al momento disseminati con una frequenza ormai irritante a fianco di ogni nuova presentazione di prodotto. La realtà è che il prossimo decennio sarà decisivo perché l’ ulteriore riscaldamento del pianeta non superi la soglia di 1,5 gradi, oltre la quale andremo incontro a impatti catastrofici e irreversibili.
L’ONU stima che l’industria della moda sia da sola responsabile dell’emissione del 10% di tutti i gas serra globali, seconda in questa classifica solo a quella degli idrocarburi. I marchi – dice il rapporto dell’IPCC – devono dunque ridurre drasticamente le proprie emissioni ora, senza tentennamenti.
Lo stanno davvero facendo? Il super gruppo francese del lusso Kering (Gucci, Balenciaga Bottega Veneta…) si è posto l’obiettivo di ridurre le emissioni della catena di approvvigionamento del 70% entro il 2030. Il gruppo americano PVH (proprietario di Tommy Hilfiger, Calvin Klain…) si è impegnato a ridurle del 30%. Burberry ha promesso una riduzione del 46% per la stessa data. Il leader assoluto di questo settore LVMH ( Dior, Louis Vuitton, Fendi, Balenciaga… ) per il 2030 mira a ridurre le emissioni della catena di approvvigionamento del 55% e dimezzare le emissioni derivanti dal consumo di energia entro il 2026. Anche Levi’s si è impegnata a ridurre le emissioni della catena di approvvigionamento del 40% entro il 2025.
Ma che vuol dire impegnarsi? Non è affatto chiaro come aziende raggiungeranno i loro obiettivi.
Le conglomerate e i marchi citate qui sopra sono leader potenti ed evoluti, ma il settore nel suo insieme è ancora più indietro. La grande maggioranza dei brand non ha un piano convincente su come ridurre gli impatti totali del loro modello di business.
Ciò che il rapporto dell’IPCC sottolinea è che è la scienza a dover dettare le modalità della lotta ai cambiamenti climatici, non il linguaggio di marketing utilizzato da questo o quel brand, non la quantità di denaro investita in una capsule collection sostenibile se il resto delle operazioni continua a essere quello del passato.
Mica facile. Perché questo significa incentivare i produttori presso cui è stata dislocata la gran parte delle façonne a convertire l’utilizzo di energia verso fonti rinnovabili e considerare soluzioni appropriate per le decine di migliaia di addetti per lo più dislocati nel sud est asiatico.
Sono le emissioni delle operazioni a monte, come l’approvvigionamento delle materie prime, la loro lavorazione e i processi di tintura o concia nel caso delle pelli a essere i principali responsabili del disastroso contributo dell’industria della moda al cambiamento climatico.
Per i marchi di moda ridurre le emissioni delle loro strutture di proprietà e la gestione diretta e dei fornitori di energia è praticabile. Assai più difficile il resto. In molti stanno investendo in nuove tecnologie e materiali che sperano ridurranno il conteggio delle emissioni dei loro fornitori. Ma spingere sempre e comunque per consumi crescenti senza o con pochissime idee di come affrontare il fine vita dei prodotti distribuiti equivale a gettare a casaccio rifiuti per la strada: su scala planetaria.