Le istituzioni sono finzioni condivise e dipendono da una sospensione collettiva dell’incredulità. Ed è proprio questa sospensione dell’incredulità a rendere possibile la vita moderna così com’è strutturata.
La società riconosce che dei pezzi di carta stampata hanno valore, una finzione che ci permette di evitare i disagi del baratto. La gran parte di noi cede l’autorità al governo e rispetta il principio secondo il quale il vincitore dichiarato delle elezioni sia legittimato a governare, e così ci risparmiamo le morti, i disordini e le distruzioni causate da un conflitto armato. Ogni anno, in un giorno preciso, una parte del mondo regola i propri orologi facendo finta che l’alba arrivi un’ora prima rispetto al giorno precedente, e questo diventa effettivamente vero perché un numero sufficientemente grande di noi ci crede.
Queste e altre istituzioni – organizzazioni formali così come prassi e procedure, schemi di comportamento e norme sociali non scritte – regolano e standardizzano le nostre vite, consentendo a giganteschi gruppi di persone di “funzionare” insieme. Ma, se la nostra capacità di credere in finzioni condivise ha i suoi vantaggi, crederci troppo può diventare un problema: se ci fissiamo sull’aura simbolica che le istituzioni accumulano con il passare del tempo, la lealtà può virare verso una fede incondizionata.
Anche se un cambiamento delle convinzioni può dare una scossa fastidiosa, perché minaccia un ordine cosi radicato da essere dato per scontato, questo è probabilmente il segno che dobbiamo mettere alla prova quel sistema. Una perdita di convinzione è un sintomo per cui fermarsi un attimo, fare un passo indietro e osservare con attenzione quello in cui crediamo: stiamo sostenendo un’istituzione perché crediamo che assolva a una funzione legittima o stiamo religiosamente rispettando una tradizione soltanto perché è una tradizione, anche se ha dei difetti?
Una parte del mio lavoro di scrittrice di fantascienza è reimmaginare delle istituzioni per i mondi futuri che creo. Per farlo, spello vari strati di cose che con venerazione siamo abituati ad assumere per buone e mi concentro su quello che si suppone che facciano le istituzioni del mondo in cui viviamo e su come potrebbero farlo in modo diverso.
Le istituzioni iniziano come idee nuove, delle idee spesso controverse, in cui non tutti credono. Se raccolgono abbastanza adesioni, allora vengono messe in pratica. Se un’istituzione funziona, molte più persone iniziano a credere in essa – e a comportarsi di conseguenza. A un certo punto, l’istituzione diventa “reale” in senso proprio: semplicemente diventa il modo in cui le cose vengono fatte. Auspicabilmente, l’avviamento di un’istituzione rende le cose migliori per gran parte delle persone, ma in questo processo è coinvolto anche un certo grado di inerzia. A un certo punto, l’istituzione oltrepassa una soglia di legittimazione e diventa non soltanto il modo in cui le cose vengono fatte, ma il modo in cui le cose dovrebbero essere fatte. Alcune istituzioni accrescono ancora di più il loro potere, circonfondendosi di un alone di valore simbolico che va ben al di là della loro effettiva funzione. Il mondo dello sport è pieno di campionati, ma le Olimpiadi sono diverse: hanno un’influenza culturale (derivante da un’antica tradizione che ha solo una tenue somiglianza con i Giochi moderni, legati al fervore nazionalistico e attentamente coltivati dalle società televisive che trasmettono le gare) che supera di gran lunga la competizione atletica.
Ma quando il significato simbolico di qualcosa non può essere misurato o definito e non è più connesso al suo obiettivo originale, il nostro credere nelle istituzioni inizia ad assomigliare un po’ di più a una fede incondizionata. Questo è il motivo per il quale le città sono desiderose di fare grandi investimenti per poter ospitare le Olimpiadi, perfino quando questi investimenti siano eticamente ambigui e non possano probabilmente portare nessun tipo di utile. Quando smettiamo di sottoporre a critica le nostre istituzioni, esse diventano un’opportunità per comportamenti impropri, per appropriazioni indebite e anche per episodi di corruzione.
Prendiamo in considerazione l’istituzione della presidenza americana. È nata come un’idea nuova: una forma di leadership che non era una monarchia. Non tutti credevano che avrebbe funzionato: molti temevano che la presidenza, che era una carica elettiva, si sarebbe alla fine trasformata in una sorta di monarchia – e cioè proprio in quell’istituzione che intendeva sostituire.
Ma George Washington rifiutò un terzo mandato e la nascente democrazia americana rimase indipendente, mantenendo un sistema elettivo per designare i suoi leader. La presidenza iniziò chiaramente a esistere da quel momento: non credere in essa sarebbe stato assurdo. E fu allora che la magia incominciò. Dopo un gran numero di generazioni, di discorsi, di campagne elettorali, di ritratti ufficiali, di libri di storia, di agiografie e di caricature politiche, la presidenza divenne qualcosa che andava al di là delle sue funzioni e di chi fosse in carica. E finì per incarnare il crescente prestigio del Paese – il presidente iniziò a essere considerato “l’uomo più potente [sic, anche se non lo era per davvero] del mondo”. La presidenza assunse alcuni aspetti della democrazia e della meritocrazia e infatti «Un giorno potresti diventare presidente» divenne la frase fatta da rivolgere a chiunque fosse capace di fare qualcosa.
Al giorno d’oggi credere nella presidenza non significa credere che quell’idea possa funzionare o credere che quella carica esista. Il concetto di presidenza, invece, comprende un assortimento molto vario e dai contorni indefiniti di connotazioni diverse, che sono tratte da lezioni di storia di cui si hanno solo vaghi ricordi e da libri illustrati, da un collage di varie notizie e dai film hollywoodiani. Un esagerato simbolismo oscura il modo in cui quell’istituzione funziona nella realtà. Per decenni la copertura offerta dai media e il dibattito pubblico si sono interessati più all’“idea” della presidenza che al ruolo essenziale che questa istituzione riveste, nel mondo reale, nel contesto del nostro sistema di governo.
Gli elettori scelgono un presidente sulla base di ciò che pensano sia quell’incarico più che sulla base di ciò che quell’incarico richieda in realtà. E questo è il motivo per cui, invece di candidati che vogliono svolgere un incarico governativo per rendere migliore il Paese, ci siamo trovati ad avere candidati che vogliono essere presidenti perché si pensi di loro che sono potenti e importanti.
La monarchia è un altro esempio. Un’istituzione che era iniziata come un riconoscimento della potenza militare si trasformò, attraverso un’esagerazione, in una trasmissione di diritto divino e di nobiltà ereditaria, finché una combinazione di regnanti particolarmente tremendi, di rivendicazioni locali e di prospettive di avere qualcosa di diverso rese quell’istituzione insostenibile. E ciò ha consentito che la monarchia venisse sostituita, in alcuni Paesi, da una carica presidenziale.
Se i nostri politici lodano la democrazia mentre fanno passare leggi che rendono più complicato votare, allora non c’è da stupirsi se iniziamo a dubitare delle nostre istituzioni più rilevanti. E, se questo può aprire un varco pericoloso per la diffusione dell’apatia e delle teorie del complotto, ci ricorda anche dobbiamo guardare al di là dei simboli più luccicanti del potere e della tradizione e che dobbiamo sistemare tutto ciò che non sta funzionando.
La perdita della fede nelle nostre istituzioni è il segnale che, come minimo, dobbiamo riesaminare gli eccessi della nostra fede. E che dobbiamo probabilmente riesaminare anche le istituzioni stesse. Siamo davvero così democratici come proclamiamo di esserlo? Quello che diciamo essere il nostro sistema giudiziario fa davvero giustizia? Il nostro magnificato sistema economico fa quello che afferma di fare?
Le istituzioni ci offrono la potente speranza che, quando collaboriamo tutti insieme, possiamo creare entità astratte che regolano e coordinano i nostri sforzi, moltiplicando il nostro potenziale e superando gli individui. Ma esse sono un mezzo, non un fine. Non dobbiamo loro la nostra fede e un credito incondizionato. Le istituzioni, e le società che sono regolate da queste istituzioni, sono nostre e possiamo farle e rifarle. Come degli scrittori di fiction, noi controlliamo la narrazione delle nostre istituzioni. Con pensiero critico, immaginazione e collaborazione possiamo cambiarle. La nostra responsabilità collettiva – verso noi stessi e verso le generazioni future – è creare istituzioni che siano una migliore dell’altra.
©️2021 The New York Times Company and Malka Older. Distributed by The New York Times Licensing Group
Malka Older insegna presso la School for the Future of Innovation in Society dell’Arizona State University. È autrice della trilogia “The Centenal Cycle”, composta dai romanzi “Infomocracy” (2016), “Null States” (2017) e “State Tectonics” (2018).
Questo articolo di Malka Older è stato pubblicato sul nuovo numero di Linkiesta Magazine, in edicola a Milano e a Roma e nelle migliori librerie indipendenti d’Italia.
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