Negli ultimi 50 anni, il 90% dell’eccesso di calore di origine antropica accumulato è stato assorbito dagli oceani, le grandi distese d’acqua che hanno un ruolo sempre più determinante nella regolazione del clima. Secondo i dati emersi dal Copernicus Marine Ocean State Report, l’incremento termico è stato di circa 0,014°C/anno, 0,7°C in mezzo secolo.
Ciò ha avuto e ha importanti ripercussioni sulla vita di flora e fauna acquatiche e terrestri. Come hanno sottolineato in un articolo Alessandra Giuntini e Nadia Lo Bue dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, il calore che si sta immagazzinando negli oceani verrà rilasciato nuovamente in atmosfera. «La modalità e la tempistica sono ancora lontane dall’essere note, ma il fenomeno comporterà un futuro certamente più caldo per tutta la Terra». L’accumulo di energia termica che gli oceani sottraggono all’atmosfera è infatti tale da creare un enorme sbilanciamento energetico a livello globale.
Gli oceani, grazie alle correnti marine che li attraversano da un polo all’altro, sono da sempre dei grandi trasportatori di calore. Il surriscaldamento termico, di origine antropica, che li sta interessando da mezzo secolo è un processo noto e studiato per quanto riguarda le acque superficiali. Lo stesso, però, non si può dire di quelle più profonde. Proprio per questo, hanno spiegato le due studiose, conoscere i fenomeni che avvengono negli abissi rimane ancora una grande sfida.
Dagli anni ’70, gli esperti eseguono un monitoraggio continuo della parte superficiale dell’oceano su scala globale. «Questo ha permesso di calcolare che del calore totale assorbito, più del 60% è accumulato effettivamente negli strati superficiali (0-700m). La restante parte, circa il 30%, viene invece immagazzinata negli strati più profondi, sebbene la mancanza di una copertura ben distribuita di dati non riesce ancora a dare un quadro complessivo del reale accumulo».
È probabile che il riscaldamento dei primi 700 metri degli oceani abbia contribuito, con una media di 0,6 millimetri all’anno, all’innalzamento del livello del mare dall’inizio degli anni ‘70, a cui va aggiunto l’ulteriore contributo relativo al calore accumulato anche negli strati più profondi sottostanti.
«Se poi consideriamo anche l’effetto indotto dallo scioglimento dei ghiacciai terrestri, queste stime crescono ulteriormente. Il rapporto del 2019 degli esperti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico riporta che se il riscaldamento dovesse continuare con i ritmi finora registrati, entro il 2100 l’aumento del livello marino globale sarebbe di 0,6-1,1 metri».
In questo contesto già poco rassicurante, bisogna sottolineare che alcune zone sono particolarmente suscettibili a questo problema globale. È il caso, ad esempio, del Mar Mediterraneo dove la tendenza al riscaldamento è molto più alta di quella globale. «Il tasso di incremento medio è di 0,041°C/anno a partire dall’inizio degli anni ’80 con un aumento complessivo di oltre 1,5 gradi con un progressivo interessamento degli strati più profondi».
Proprio nel Mar Mediterraneo, nello specifico nel Mar Ionio, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia ha installato quest’anno, in collaborazione con il CNR-ISMAR, una catena correntometrica mooring: si tratta di un insieme di strumenti disposti lungo un cavo ancorato sul fondale marino che costituisce un punto fisso di misura e permette di registrare nel tempo differenti parametri chimico-fisici e dinamici a diverse profondità. «Il punto di osservazione è stato collocato a 25 km davanti la costa orientale siciliana e a circa 1,5 km a Nord dell’osservatorio Western Ionian Sea. Negli ultimi decenni l’osservatorio ha registrato un interessante variabilità delle proprietà delle masse d’acqua profonde, registrando una tendenza all’aumento di temperatura e salinità e confermando il crescente accumulo di calore negli strati più profondi del Mar Ionio».
Il mooring installato nel bacino ionico, hanno spiegato le due studiose, ha l’obiettivo di registrare le variazioni a lungo termine dell’intera colonna d’acqua integrando così le misure che dal 2001 vengono acquisite dall’osservatorio multiparametrico profondo (2100 m) del Western Ionian Sea dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. «Questo permetterà di connettere le variabilità osservate negli strati profondi con ciò che accade negli strati più superficiali e meglio comprendere come queste possano influenzare i processi che governano le tendenze climatiche».