Il testacoda strategicoLa sinistra ha sempre cercato un Papa straniero, ma mai così estraneo come Conte

Un sondaggio di Demos indica l’ex premier populista come il più popolare tra gli elettori del Partito democratico. Un paradosso, visto che si tratta del leader di un’altra forza politica. Ma, conoscendo la storia recente dei dem e delle continue cortesie rivolte al personaggio, non deve stupire più di tanto

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Siamo sempre lì: alla ricerca del papa straniero che ci fa vincere. Suggerisce sostanzialmente questo il sondaggio di Demos (Ilvo Diamanti) uscito lunedì su Repubblica, con un dato che fa un po’ impressione: per la base del Partito democratico – chissà poi sondata come: dov’è esattamente ‘sta base? – l’ordine di arrivo della popolarità è fantastico: primo Giuseppe Conte, poi Enrico Letta, Dario Franceschini, Nicola Zingaretti.

Un paradosso, il primo classificato è il capo – diciamo così – di un altro partito. Segue il segretario “vero”, Letta, e gli inventori dell’alleanza strategica, soprattutto Franceschini e poi Zingaretti, il segretario meno longevo del Partito democratico ma che evidentemente ha lasciato il segno della sua bonarietà de sinistra.

Un sondaggio è un sondaggio, e va bene. Ma qualcosa contiene. Contiene, come detto, la mai sopita brama dei figli di un Dio minore, come disse Massimo D’Alema (uno che ebbe bisogno del super papa straniero Romano Prodi per andare al governo), di una “faccia” presentabile, di un “compagno di strada” (ci perdoni Jean Paul Sartre), di un valore aggiunto extra Ditta che ti porti nel paradiso del potere.

Ecco perché Giuseppe Conte: un tram che si chiama desiderio di palazzo Chigi, che al limite si può scaricare se la situazione evolve, ragionarono così appunto D’Alema e Francesco Cossiga quando intravidero la possibilità di portare gli eredi del Pci direttamente alla guida del governo scaricando il papa Prodi e coronando così il sogno – presunto – di Berlinguer e Moro, la famosa democrazia compiuta.

Se Conte, dunque, per i Bettini e gli Orlando può essere il capo di un’alleanza di governo di sinistra, per i compagni di Articolo Uno può persino essere addirittura «uno di noi», come ha spiegato Bersani: «Io sono uno di sinistra, Conte ha un’ispirazione sul piano sociale, economico e fiscale un po’ diversa dalla mia, ma saremmo compatibili abbastanza facilmente».

Come ha notato un acuto osservatore delle cose della sinistra, Aldo Garzia sulla rivista online Ytali, «l’affermazione è impegnativa e fa pensare che possa nascere un’intesa Bersani-Conte. La novità è infatti che Bersani e Conte hanno preso a sentirsi e incontrarsi ripetutamente, fino al punto da ipotizzare possibili scenari in comune. Nel gruppo dirigente di Articolo Uno non si fa mistero che l’implosione del Movimento 5 Stelle, con conseguente scissione, è l’ipotesi che i bookmaker della politica danno ormai per assai probabile».

Ecco spiegato il retroterra psicologico che ha fatto scattare gli applausi al Rasputin di Conte, Marco Travaglio, alla Festa di Articolo Uno quando questi ha detto che «Draghi non capisce un cazzo di vaccini». Perché Draghi sarà bravo ma non è dei nostri. Gli stiamo affidando le chiavi del Paese ma ce le ridarà indietro? Questi sono anche i retropensieri della “base”, almeno quella testata da Diamanti, poi vai a sapere se è realmente così.

In fondo, si ragiona sempre allo stesso modo. La base aveva creduto per un po’ che il segretario del partito Walter Veltroni potesse fare il premier («come in tutti i grandi Paesi occidentali», si diceva nelle sezioni, lo misero pure nello Statuto del partito) ma quella volta non andò bene.

Anche “Walter” era un figlio del Partito, e non ce la fece. Meglio, molto meglio, andò a Matteo Renzi, che però era figlio chissà di chi, si prese il partito e poi il governo: ma è storia finita malissimo, e la base ricorda tutto e non perdona.

Resta oggi dunque l’ipotesi un po’ dickensiana – nel senso di mesta – del tripartito Pd-M5s-LeU, un governo bello di sinistra, con questi grillini che «sono cresciuti», e poi i dirigenti non hanno forse spiegato che l’avvocato è «il punto di riferimento fortissimo dei progressisti»? A furia di ripeterlo, li hanno convinti.

Ci scherza ma mica tanto Matteo Orfini: «Avendo passato due anni a fargli campagna elettorale gratis direi che è inevitabile. Ciò detto, questi sondaggi valgono zero, con il dovuto rispetto». Andrea Romano spiega invece che «è un dato del tutto fisiologico, chi vota Partito democratico è una porzione dell’opinione pubblica generale: se Conte è popolare, una parte di questa popolarità viene ovviamente da chi dice di votare Partito democratico. Al di là delle etichette che abbiamo utilizzato in questi anni».

Ma di che cosa ci si meraviglia: fatti due conti, senza il Movimento 5 stelle dove andiamo? Adesso Diamanti spiega che l’alleanza è «tattica» e non più «strategica» ma insomma sempre lì stiamo, e deve essere considerato un dettaglio che circolino altri sondaggi che danno ai Cinquestelle il 12%, una caduta verticale che rischia di rompere l’osso del collo all’avvocato del populismo ma anche di condurre nel nulla i suoi fan del Partito democratico.

Lui, Conte, insultato da migliaia di troll fedeli a Beppe Grillo, gioca una partita sul filo, sta con Draghi senza stare con Draghi, sta con Grillo senza stare con Grillo, sta con Di Maio senza stare con Di Maio. Ma per sua fortuna ci sarà sempre la base del Partito democratico e una festa di bersaniani dove andare la sera.

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