Con la dura risposta riservata in conferenza stampa alla domanda sulle dichiarazioni di Matteo Salvini circa l’opportunità di non vaccinare i giovani – «L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire, sostanzialmente. Non ti vaccini, ti ammali, muori. Oppure fai morire» – Mario Draghi ha dimostrato anzitutto una cosa: che si può fare. Che è possibile governare con i populisti, se necessario, e persino con Salvini, se non si può proprio evitare, dialogando e mediando pazientemente, come è naturale che sia, ma fissando anche alcuni punti fermi, su questioni di principio su cui non si è disposti a transigere.
In altre parole, Draghi ha dimostrato che è possibilissimo guidare una maggioranza che abbia il leader della Lega al suo interno senza ridursi a esibire il cartello con su scritto «#decretosalvini» davanti alle telecamere, come fece a suo tempo Giuseppe Conte. A conferma del fatto che non si trattava affatto di causa di forza maggiore, ma di profonda convinzione interiore.
L’immagine di Draghi con un simile cartello in mano, infatti, è inconcepibile, grazie al cielo. Assai più verosimile, semmai, che grazie a lui sarà Salvini, presto o tardi, ad andare davanti alle telecamere con il cartello con su scritto «Viva l’Europa».
Il guaio è che il Partito democratico i decreti sicurezza di Salvini se li è tenuti oltre un anno, per non parlare della riforma Bonafede, su cui ancora si ostina a giocare di sponda con Conte. Con il bel risultato di alimentare le tensioni, giunte ieri assai vicino al punto di rottura – se non altro della sospensione di incredulità – quando la ministra Fabiana Dadone, dopo avere votato la riforma della giustizia in Consiglio dei ministri e dopo avere approvato anche la richiesta di fiducia su quello stesso testo da parte del governo, ha detto che in mancanza di modifiche lei e gli altri ministri grillini avrebbero dovuto valutare con Conte l’ipotesi di dimettersi. Primo caso nella storia politica nazionale, e probabilmente mondiale, in cui un ministro sigli un accordo e contemporaneamente dichiari di essere pronto a dimettersi qualora la maggioranza si azzardasse a rispettarlo (in serata, la ministra ha comunque tenuto a dire: «Non è nel mio stile minacciare quindi respingo i titoli apparsi in tal senso ma è nel nostro stile dialogare e confrontarci», che sarebbe stata una precisazione perfetta per un’intervista data a un giornale; il problema è che era un’intervista televisiva).
La subalternità dei democratici ai populisti va però ben oltre la pur fondamentale questione della giustizia. Come dimenticare lo sfregio alla Costituzione rappresentato dal taglio dei parlamentari, che il Pd, dopo averlo combattuto per un anno, si è abbassato a votare, prima in Parlamento e poi persino al referendum, con la benedizione di Enrico Letta, non ancora segretario? Lo stesso Letta che ieri non ha tardato a postare sui suoi profili social una card con la foto di Draghi e il virgolettato contro Salvini, accompagnata dal commento: «Impossibile essere più chiari. Noi ci siamo. #Vaccinarsi».
Già che ci sono, oltre a rilanciare le parole di Draghi, i democratici potrebbero fare tesoro della lezione, e capire che anche in una coalizione di governo si può stare con le proprie idee e i propri principi. A condizione di averceli.