La sfida ai TalebaniEmma Bonino propone una Commissione Onu per salvare le donne afghane

La senatrice di PiùEuropa chiede di istituire un organismo internazionale di monitoraggio che giri per il Paese e ascolti i testimoni. Ma non è semplice: «Per diventare operativo lo Statement si deve trasformare in una risoluzione del Consiglio. Se passa lì, allora si fa». Ma «al Consiglio di Ginevra non abbiamo la maggioranza, molti ancora resistono a questo passaggio finale»

Emma Bonino
Tiziana FABI / AFP

«Questo è l’accordo di Doha, quello tra americani e talebani. Non è segreto, lo può scaricare chiunque. Sono quattro paginette e non c’è nemmeno una riga sui diritti umani o sulle garanzie per le donne. Zero, si parla solo di terrorismo e, al massimo, si chiede un governo inclusivo. E si è visto il concetto di inclusività dei talebani», dice la senatrice di PiùEuropa Emma Bonino a Repubblica. Ex commissaria europea, già ministra degli Esteri, si sta muovendo per fare qualcosa e proteggere le donne afghane che sfidano i Talebani e scendono in piazza per difendere la loro libertà.

«Me lo stanno chiedendo in tanti, persone in buona fede che vorrebbero far qualcosa, in loco o da noi. Ma in loco sono rimaste le agenzie Onu e poche Ong coraggiose come Emergency e la Croce rossa, in situazione molto precarie. La prima cosa da fare è attivarsi per tenere alta l’attenzione. Perché tra qualche giorno arriverà un’altra tragedia, i riflettori si spegneranno, i giornalisti se ne andranno, e quelle donne (ma anche gli uomini) resteranno da sole di fronte ai talebani», dice. «Io un’idea ce l’ho, l’ho elaborata in parte con loro: una Commissione internazionale di monitoraggio sui diritti umani. Un istituto che è stato già usato in passato in altre circostanze e che dovrebbe nascere dal Comitato per i diritti umani di Ginevra».

Bonino dice di averne già parlato «prima con la viceministra Marina Sereni, poi con il nostro sottosegretario Benedetto Della Vedova, il quale ne ha parlato con il ministro Di Maio. Qualcosa si è messo in moto, abbiamo la fortuna che l’Italia fino a dicembre è membro a rotazione del Comitato per i diritti umani. Insomma, grazie anche all’impegno della Farnesina siamo andati avanti e la scorsa settimana è uscito questo Joint Statement firmato da 47 Stati membri che chiede l’istituzione della Commissione». Ma non è così semplice: «Per diventare operativo lo Statement si deve trasformare in una risoluzione del Consiglio. Se passa lì, allora si fa. I problemi sorgono ora: al Consiglio di Ginevra non abbiamo la maggioranza, molti ancora resistono a questo passaggio finale».

Il ministro Di Maio, che ora è a New York per una riunione ministeriale in sede Onu dedicata alle donne afghane, «può andare a scovare i contrari e provare a convincerli…», spiega la senatrice. E il fatto che la presidenza del Consiglio per i diritti umani è del Pakistan, principale alleato dei talebani, «certo non aiuta». Ma «da qui a dicembre il Consiglio si riunirà altre 2 o 3 volte, c’è ancora spazio per intervenire».

Certo, resta uno strumento, fragile. Ma è l’unico possibile. E non va neanche sottovalutato, dice Emma Bonino. «Nel ’98, quando ero commissaria Ue per i diritti umani, riuscimmo a bloccare il riconoscimento dei Talebani e tutta l’Europa ci seguì. Li riconobbero solo gli Emirati e per loro fu un disastro. Adesso la situazione è diversa, ma se in questo momento fanno finta di moderarsi e accettano che i giornalisti se ne vadano in giro è solo perché hanno disperatamente bisogno di essere riconosciuti».

Questo organismo, spiega, «potrebbe chiedere al governo di poter girare liberamente per il Paese, ascoltare testimoni… Se invece i Talebani chiudono i membri della Commissione in un albergo e non li fanno lavorare, sarà un segnale in più per non riconoscerli. Serve anche a spingere gli amici dei Talebani – in primis Cina, Pakistan, Russia – a fare pressioni».

Quindi con i talebani si deve parlare? «Se hanno il controllo dell’aeroporto e le Nazioni Unite devono far atterrare un aereo, è chiaro che ci devono parlare», risponde. «L’Unhcr, la Fao, Emergency e gli altri organismi umanitari ci devono parlare per forza, anche per garantire la sicurezza del proprio personale. Un conto è parlarci, un altro è riconoscere il loro governo»

Ma la cosa più importante ora è «tenere insieme gli europei su questo obiettivo. Dobbiamo assolutamente provarci, almeno per una volta. E poi continuare a tenere le donne afghane in mente, anche quando la nostra attenzione si sarà spostata su altre priorità. Anche a questo serve la Commissione di monitoraggio». La senatrice racconta che «qualcuna osa chiamarci, ma sanno di essere controllate. Sono tipe toste, come la governatrice di Bamiyan o l’ex ministra per le donne e i diritti umani. Ma visto che non possiamo più essere lì al loro fianco per difenderle, è nostro compito parlare forte nelle capitali europee affinché l’Occidente non si sogni di riconoscere quel regime. Il portavoce del governo afghano, Mujiad, ha detto chiaramente “prima il riconoscimento poi vedremo sui diritti”».

E per il 25 novembre, la giornata contro la violenza sulle donne, «quest’anno potremmo dedicarla a loro, alle coraggiose donne che a Kabul scendono in piazza a volto scoperto». Una cosa «magari simbolica ma nemmeno tanto».

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter