Ieri su Repubblica Stefano Folli ha ripreso la proposta che ho formulato su Linkiesta, poi condivisa e rilanciata da Peppino Calderisi sul Foglio, a favore di una legge elettorale proporzionale per le prossime elezioni politiche.
Folli nota come il tema della legge elettorale sia «noioso ed eterno». E, aggiungo io frustrante, perché si ripresenta a ogni tornata elettorale, accende gli animi e alimenta per mesi il chiacchiericcio sul valore supremo della sovranità popolare. Tutto poi finisce in coda di pesce con una riformicchia che si conclude con una forzatura o un compromesso. In ogni caso viene garantita soltanto l’ingovernabilità. Negli ultimi tre anni, per non dire dei cinque precedenti, del voto sovrano si è fatta carta straccia.
Perseverare nell’errore oggi costituirebbe una consapevole truffa nei confronti degli elettori. Ho già esposto le ragioni per cui soprattutto i più tenaci sostenitori dei modelli seriamente maggioritari dovrebbero ora, invece di rassegnarsi a una testimonianza di coerenza eccitante come un fuoco fatuo, prendere il toro per le corna e rilanciare il percorso verso un modello liberale di organizzazione dello stato, di governo e di stato di diritto. Qualcosa che sembrava fino a ieri ormai non più raggiungibile.
Dico fino a ieri perché l’improvvisa entrata in scena di Mario Draghi ha segnato una frattura storica nella politica nazionale che soltanto i ciechi o i furbastri possono fingere di poter archiviare con le prossime elezioni. Oggi abbiamo un governo pienamente inserito nel meccanismo di evoluzione dei rapporti interatlantici e fra i capifila dello sviluppo dell’Unione Europea, che gode di assoluta fiducia da parte degli organi finanziari internazionali, impegnato senza sbandamenti nella ricostruzione delle nostre strutture economiche e sociali. Al tempo stesso vediamo svolgersi davanti a noi il film in bianco e nero (non muto, purtroppo) di un perenne scontro pre-elettorale fra partiti che pensano di riproporre ricette economiche e politiche stantie, smentite dalla realtà, alle volte ispirate a società chiuse e a governi illiberali.
La nostra fortuna è che la maggioranza populista si divide fra i due schieramenti che ancora, ma senza titoli, si definiscono di centrodestra e centrosinistra.
Oggi, e in attesa fiduciosa della gemmazione di qualcosa di nuovo, in entrambe le coalizioni liberal-democratici ed estremisti sono costretti a convivere, e come succede in questi casi è generalmente l’anima estremista che la fa da padrona. C’è una differenza, certo: su un versante prevalgono largamente i due partiti legati all’estrema destra europea e agli Stati postcomunisti illiberali, legati consapevolmente (l’Ungheria) o no alle politiche anti Unione europea di Vladimir Putin. A sinistra, nonostante le prospettive elettorali più che negative, il Partito democratico non sa o non vuole sciogliersi dall’accozzaglia grillina. È il bipopulismo di cui spesso parla Linkiesta.
Chi ha a cuore la Costituzione, il ruolo che questa assegna alla sovranità dei cittadini, il ruolo dei partiti e la loro organizzazione democratica, oggi assente tranne minuscole eccezioni, deve muoversi e deve farlo ora.
Innanzitutto occorre spezzare i ceppi che tengono forzosamente unite forze liberaldemocratiche e forze populiste ed estremiste, a destra come a sinistra.
In secondo luogo occorre restituire agli elettori il diritto di manifestare al momento del voto la loro volontà senza vederla immancabilmente tradita il giorno dopo le elezioni. Chi parla di un ritorno attraverso il proporzionale alla prima repubblica non sa quel che dice, non conosce la storia d’Italia, il legame che divideva e univa Dc e Pci, il contesto internazionale in cui l’Italia era inserita. Affacciatevi alla finestra, per favore.
In terzo luogo occorre restituire dignità di stato occidentale alle nostre istituzioni.
Nessuno può lealmente affermare che l’affossamento del referendum costituzionale del 2016 abbia, come era stato promesso dai suoi aggressivi avversari, portato alle migliorie che tutti ritengono necessarie. Anzi, gli interventi successivi hanno aggravato i mali del sistema: da un lato la drastica riduzione del numero dei parlamentari accettata passivamente da (quasi) tutti per demagogia e populismo originario o subito, dall’altro la parificazione dell’età di voto a 18 anni per Camera e Senato hanno reso ancora più assurdo e dannoso il bicameralismo paritario. E niente è stato fatto per restituire al Parlamento il suo ruolo centrale né sono state affidate al Governo, e al presidente del Consiglio in particolare, quelle funzioni la cui assenza comporta di fatto la compressione dei diritti parlamentari.
È su queste riforme che a lungo ma senza frutto si è impegnato in Parlamento il costituzionalista e deputato del Pd Stefano Ceccanti, e lo stesso ha fatto nei suoi interventi l’ex presidente del Senato Marcello Pera invocando dagli attuali legislatori il varo di una mini assemblea costituente, eletta col proporzionale. Personalmente ritengo più che improbabile che questo Parlamento voglia delegare al suo esterno la risoluzione di un enigma riformatore per il quale la maggioranza degli eletti vorrebbe trovare la risposta più illiberale e demagogica possibile.
Per spazzare via la ruggine che corrode mortalmente le strutture essenziali della nostra democrazia liberale, l’amministrazione della giustizia, la forma di governo, la forma dello Stato e delle Regioni, serve un atto di responsabilità, sì, ma che non vada contro gli interessi della maggioranza dei partiti rappresentati in Parlamento. Viste le dinamiche interne alle due coalizioni varare una legge proporzionale è oggi, per quanto difficile, possibile.
Avremo una rappresentanza parlamentare che non distorce la volontà dell’elettorato, il vincolo di coazione-coalizione non schiaccerà più moltissimi deputati e senatori su posizioni a loro estranee. Al tempo stesso si potrà legittimamente deliberare, nel seno o esterna al nuovo Parlamento quella assemblea costituente di formato ridotto di cui scrivono Pera e altri. Sarà quella, se la conquisteremo, la sede giusta per scegliere un sistema elettorale adeguato a una società aperta e complessa.