Storie di soft powerIl futuro della geopolitica si giocherà sul piano della cultura

Dai Paesi autoritari alle democrazie occidentali, la capacità di riprendersi dalla crisi da coronavirus ed esportare il proprio modo di vedere il mondo si rivelerà decisiva nei prossimi anni. L’estratto dal libro di Antoine Pecqueur

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I numeri parlano da soli. Nel 2020, rispetto all’anno precedente, il fatturato delle attività culturali e creative europee è diminuito del 31% (da 643 miliardi di euro a 444 miliardi di euro). Il settore culturale è quindi tra i più colpiti dalla crisi sanitaria. Su scala europea, la flessione è pari a quella del trasporto aereo, meno 31%, seguito dal turismo, meno 27%, e dall’industria automobilistica che ha perso il 25%.

All’interno della cultura, tuttavia, l’impatto economico sui vari settori artistici è stato differente. Sono le arti performative (danza, musica, teatro, ma anche illusionismo, mimo, teatro dei burattini, arte circense) che hanno subito la maggiore flessione, con un calo di attività del 90%, mentre le vendite di libri sono diminuite solo del 25%; i teatri sono stati chiusi per quasi un anno, ma le librerie sono rimaste aperte per la maggior parte del tempo.

Si registrano anche notevoli differenze fra i diversi Paesi dell’Unione europea. Gli Stati dell’Europa dell’Est hanno infatti difficoltà maggiori, per due ragioni principali: nelle economie dei Paesi dell’Est la cultura pesa di più che in quelle dei Paesi dell’Europa occidentale, e i meccanismi di protezione sociale sono molto meno efficienti.

Di fronte a questa situazione, l’Unione europea ha deciso di incrementare gli investimenti nel campo culturale; i fondi destinati a Europa Creativa sono aumentati del 50% per il periodo 2021-2027, con un budget che sfiora i 2,2 miliardi di euro.

Anche se la cultura continua a mantenere il suo ruolo di competenza di sostegno dell’Unione, Bruxelles vuole approfittare del piano di recupero legato alla crisi sanitaria per darle nuova vita. Perché, proprio mentre è economicamente in ginocchio, il settore ha un ruolo geopolitico più che mai cruciale. Già a marzo 2020, quando in Europa la crisi sanitaria era appena iniziata, la Cina aveva cominciato a riaprire i teatri, in alcune regioni. Al di là dell’obiettivo puramente economico, Pechino stava cercando di mostrare al resto del mondo la propria potenza culturale. In cattiva luce per essere stata all’origine della pandemia, la Cina deve riconquistare l’opinione pubblica globale. E la cultura è l’arma migliore. Il presidente Xi Jinping ha abbandonato lo stile del tradizionale soft power, trasformandolo in uno «sharp power», un «potere tagliente». E per farlo può contare sul conglomerato statale Poly, leader sia nella vendita di armi che nella costruzione di strutture culturali.

La questione si allarga al contesto più che burrascoso delle relazioni sino-americane. Il Covid ha messo in difficoltà il modello liberale della cultura anglosassone, basata su una redditività prodotta con mezzi propri, ovvero sulla vendita dei biglietti, resa obsoleta dalla chiusura dei locali, e sulla filantropia, messa in grave difficoltà dalla crisi economica. L’assenza di sussidi statali elimina qualsiasi rete di sicurezza e il risultato finale è una riduzione drastica dei salari degli artisti. Alla luce di quanto è successo, Joe Biden rivedrà questo modello? Si impegnerà a dare un ruolo più importante al National Endowment for the Arts, l’agenzia federale incaricata della cultura, il cui budget annuale è di meno di 150 milioni di euro?

L’altra grande decisione del nuovo presidente americano potrebbe essere quella di riportare gli Stati Uniti nell’Unesco. Donald Trump aveva deciso di lasciare l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata dell’educazione, della cultura e della scienza, giudicandola anti-israeliana. Da allora, la Cina si è trovata in una posizione di forza: diventando il principale finanziatore dell’Unesco, ha chiesto di inserire nel Patrimonio mondiale dell’umanità un gran numero di siti. Sostenitore del multilateralismo, Joe Biden potrebbe cambiare la situazione, anche se c’è ancora un aspetto economico di cui occuparsi: gli Stati Uniti hanno un debito di 616 milioni di dollari con l’Unesco…

Tuttavia, la partita culturale post-Covid non dovrebbe essere ridotta a un confronto tra Stati Uniti e Cina, con l’Europa nella parte del moderatore. In realtà, le forze in campo sono molto più frammentate. I Paesi del Sud del mondo stanno investendo moltissimo in cultura: i due principali Paesi produttori di film sono l’India, con Bollywood, e la Nigeria, con Nollywood.

L’Africa, pur nella difficoltà della crisi sanitaria, continua la sua espansione culturale, che si ritrova al centro delle questioni geopolitiche, con la Cina da una parte e i gruppi privati delle ex potenze coloniali dall’altra. Il Marocco ha appena costruito due grandi teatri, a Rabat e Casablanca, che sono tra le più grandi strutture del genere in Nord Africa.

Ma sono soprattutto i Paesi del Golfo ad avere il ruolo principale nella geopolitica della cultura. Da marzo 2021, Abu Dhabi ha promosso uno studio, in collaborazione con l’Unesco, per misurare su scala mondiale l’impatto del Covid sulla cultura. Puntando sulle arti e, più in generale, sull’entertainment, viene da chiedersi se i Paesi del Golfo non stiano progettando un’economia post-petrolio o post- gas o se, per cominciare, non stiano cercando di migliorare la loro immagine di petro-monarchie agli occhi delle potenze occidentali. Realpolitik e comunicazione, in questo caso, sono interconnesse.

Puntare sulla cultura, però, non è una prerogativa degli Stati autoritari. Gli ultimi mesi hanno dimostrato che la cultura è anche la punta di diamante delle ribellioni contro questi regimi. In Bielorussia, il movimento di protesta contro la rielezione di Alexander Lukashenko è stato in gran parte guidato da artisti. Una delle figure di punta del movimento è la musicista Maria Kolesnikova, che e stata arrestata nel settembre 2020 dopo aver rifiutato di espatriare (forzatamente) in Ucraina. Anche la scrittrice Svetlana Alexievich (premio Nobel per la letteratura nel 2015) è una figura importante dell’opposizione. Vittime della censura imposta dal regime, le personalità del mondo culturale sono in prima linea per difendere l’identità bielorussa, nella convinzione che sia stata danneggiata dal regime post-comunista di Lukashenko.

In Uganda, le elezioni del gennaio 2021 sono state vinte dall’autocrate Yoweri Museveni che è però stato sfidato, con un certo successo, da un musicista trentottenne, Bobi Wine. A Hong Kong, i difensori della democrazia e i sostenitori di Pechino si sfidano per strada, a colpi di canzoni. Anche se i teatri hanno dovuto chiudere a causa della pandemia, l’arte antagonista continua a trovare altri modi per diffondersi, dalla strada ai social network.

La pandemia ha mostrato tanto la fragilità economica quanto il ruolo centrale della cultura. La ricostruzione del settore, una volta passata la crisi, impone di riconsiderare diversi aspetti, a partire dalla dimensione ecologica: il modello delle grandi tournée internazionali in aereo o la distribuzione di film su piattaforme digitali pongono seri interrogativi dal punto di vista ambientale7.

La sfida è quella di trovare il giusto equilibrio tra un ritorno a una dimensione locale e la dimensione universale.

Per quanto riguarda il modello economico, la crisi ci ha ricordato la necessità di adottare una visione keynesiana: il sostegno privato non può sostituire l’intervento pubblico. Gli Stati autoritari l’avevano già capito, dedicando a volte mezzi colossali per difendere, tuttavia, una cultura centrata sulla «propaganda» politica e l’amministrazione del consenso. Spetta ora alle democrazie reinvestire pienamente in questo campo.

da “Atlante della cultura. Da Netflix allo yoga: il nuovo soft power”, di Antoine Pecqueur, Add editore, 2021, 144 pagine, 22 euro. In libreria dal 1 settembre

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