Dei: tre lettere che indicano uno degli obiettivi chiave dei nostri tempi. Un semplice acronimo che sintetizza uno dei processi di transizione verso nuovi paradigmi di pensiero e di organizzazione sociale tra i meno semplici da attuare. Sebbene i termini Diversity, Equality e Inclusion siano da tempo entrati anche nelle politiche aziendali di molte imprese che si sono dotate o si stanno dotando dell’ausilio di figure professionali specifiche, nella realtà delle cose creare un luogo di lavoro che abbracci veramente la diversità, l’equità e l’inclusione (Dei) può voler dire affrontare una resistenza impegnativa.
Di certo esistono strategie efficaci per gestire questa resistenza, soprattutto considerando che secondo diverse ricerche effettuate da McKinsey, Boston Consulting Group e altre aziende leader a livello globale nella consulenza strategica, le organizzazioni che abbracciano politiche Dei sono più innovative, collaborative, produttive e meglio posizionate per l’ottenimento del successo finanziario di lungo termine. Ciò non di meno saper gestire il pregiudizio inconscio che esiste in tutti noi e che può determinare il beneficio per le persone con le quali ci sentiamo maggiormente a nostro agio ma danneggiare quelle che hanno identità differenti dalle nostre favorendone addirittura l’esclusione, non è sempre scontato e può portare a punti ciechi.
Ragione per cui anche in Italia molte aziende da qualche anno stanno richiedendo il supporto degli specialisti di questo settore e, come è emerso dell’edizione 2021 della classifica Diversity Brand Summit, giunta alla sua quarta edizione con l’obiettivo di misurare il reale impegno delle organizzazioni su questi temi sempre più determinanti nelle scelte di acquisto delle persone e delle comunità, nel complesso la fotografia del “sentire” degli italiani presentava un sostanziale cambiamento.
Tant’è che il dato degli irriducibili, cioè di coloro che di diversità non vogliono sentir parlare, si è dimezzato, passando dal 25,4% al 12,4%, mentre più della metà degli italiani (55,5%), invece, risulta attenta e anche attiva sulle tematiche della diversity. Di questi, il 34,5% si definisce coinvolto e il 21% impegnato.
Tuttavia, per quanto sia una scelta resa necessaria da una società sempre più multietnica e attenta ai diritti e alla parità, ahimè le differenze sono tante e non si limitano a quelle già catalogate di genere, di età, di ambiente sociale, le cui dinamiche abbiamo imparato a riconoscere. I tempi che stiamo attraversando nascondono nuovi e più subdoli pregiudizi, nuovi e più temibili sillogismi.
Uno di questi lo ha recentemente evidenziato il giornalista del Guardian nonché scrittore George Monbiot. In un suo scritto ha fatto notare come le idee no vax si stiano facilmente sovrapponendo alle teorie del complotto, una tendenza rafforzata dagli algoritmi di Facebook che spingono le persone scettiche relativamente ai vaccini a entrare nel perimetro dei gruppi di estrema destra. Qui è avvenuto che il concetto del “corpo sovrano” cioè libero da contaminazioni chimiche, abbia iniziato a saldarsi con la paura dell’esistenza di un complotto sotteso a privarci della nostra libertà. Addirittura «alcuni no vax – scrive Monbiot – hanno cominciato a definirsi “purosangue”, una parola che dovrebbe far venire i brividi a chi conosce la storia del Novecento».
Una delle più celebri argomentazioni della filosofia contemporanea è nelle “Ricerche filosofiche” in cui Ludwig Wittgenstein ha dimostrato che non può esistere un linguaggio privato che riguardi una persona sola. Dunque, ogni parola che pronunciamo è innervata delle nostre relazioni con gli altri. Cioè è un atto eminentemente politico. In questo caso di oggi è sempre più evidente quanto una parola possa cambiare un evento, un sentimento, ma anche la nostra vita, e, nel caso limite, l’intero assetto del nostro modello sociale. Leggere correttamente il lessico è importante per comprendere appieno le sfumature del nostro tempo.